“Corre voce che
circa cinquemila giovani si trovino al colle del Lys, intenti sotto
la guida di ufficiali, ad organizzarsi per la guerriglia contro i tedeschi.”
L’osservazione di don Vitrotti, datata 19 settembre 1943, rende
manifesto l’alone di mistero che circondava la nascita delle prime
bande. Voci poco credibili che diventarono rapidamente leggenda. Non
era la realtà -d’altra parte il dato non sarebbe stato
compatibile con l’atteggiamento mostrato dall’esercito appena
pochi giorni prima- e tutti in qualche modo ne erano consapevoli, eppure
ognuno le riprendeva e le ripeteva; e le amplificava. Era il bisogno
di reagire alla sensazione di vuoto provata dopo l’annuncio dell’armistizio
e la fuga del re e del governo, d’immaginare, di fronte alla minacciosa
occupazione tedesca, la presenza di qualcuno pronto a intervenire e
a difendere la popolazione inerme. L’aiuto dato ai primi “ribelli”
era anche motivato dal desiderio di dare corpo a questa speranza.
E, reciprocamente, l’atteggiamento
delle persone che pure non imbracciavano il fucile ma che manifestavano
apertamente sentimenti antitedeschi e antifascisti rafforzava la convinzione
di chi aveva scelto la montagna. L’impressione insomma era quella
di essere dalla parte giusta, di essere in questo modo legittimati nella
decisione di opporsi all’occupazione dello straniero, e quindi
legittimati all’azione di sabotaggio e anche all’attacco
diretto contro i “nemici”. Anche questo contribuiva a orientare
la scelta di molti giovani e a trasformarla in una chiara scelta di
campo.
L’immaginario collettivo
e individuale, insomma, interveniva a suturare la ferita aperta l’8
settembre, rielaborando i miti del regime in chiave resistenziale: da
un lato l’impressione che un esercito si stesse riorganizzando
per riportare la pace, dall’altra la convinzione che il gesto
di ribellione fosse proprio quello capace di dare coraggio ad un popolo
che spezzava le sue catene e rivendicava la libertà.
