L'occupazione delle fabbriche
Lo scontro raggiunge
i livelli più intensi nel cosiddetto “triangolo
manifatturiero”, formato da Torino, Milano e Genova, città
in cui è concentrata la presenza delle industrie.
Durante l’ultimo biennio di guerra, la necessità di mantenere alti i livelli della produzione per soddisfare le commesse militari ha indotto gli imprenditori ad effettuare molte concessioni alle richieste degli operai, in ambito non solo salariale, ma anche normativo, come mostra il progressivo riconoscimento delle Commissioni interne (le Commissioni interne sono organismi sindacali, eletti dai lavoratori per gestire le contrattazioni con i datori di lavoro e verificare l’applicazione degli accordi ). Nel 1919, però, la ristrutturazione stimola gli industriali a riprendere il completo controllo delle fabbriche, a partire dall’imposizione del ripristino dei regolamenti aziendali prebellici e dall’attuazione unilaterale di licenziamenti e riduzioni di retribuzioni ed orario di lavoro (l’orario di lavoro settimanale è ridotto da 44 a 32 ore, mentre i salari subiscono una decurtazione proporzionata). Nel 1920, l’apertura delle procedure
di rinnovo del contratto dei lavoratori metallurgici e meccanici vede
gli imprenditori opporsi fermamente ad ogni aumento delle retribuzioni.
Visto che la trattativa non approda ad alcun risultato, il sindacato
lancia la forma di lotta dell’ostruzionismo (il termine ostruzionismo
significa rallentamento dell’esecuzione del lavoro). La Lega
industriale reagisce allora, ordinando la serrata degli stabilimenti
milanesi e torinesi, ma a questo provvedimento il sindacato risponde
con l’occupazione delle fabbriche.In particolare, a Torino sono
occupati più di cento impianti, non solo metallurgici e meccanici,
ma anche tessili, chimici, della gomma e delle calzature, con il coinvolgimento
complessivo di quasi 150.000 lavoratori.
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