Alla rivoluzione russa
s’ispira Antonio Gramsci, esponente dell’ala socialista
rivoluzionaria che, nel maggio del 1919, fonda a Torino il giornale
L’Ordine nuovo. Durante l’occupazione delle
fabbriche, egli pone al centro della propria elaborazione teorica i
soviet, gli organismi eletti dai lavoratori russi con il metodo della
democrazia diretta che costituiscono il perno della rivoluzione: pensando
di applicare quest’esperienza alla realtà italiana, egli
propone che gli operai affidino la guida dell’agitazione ai Consigli
di fabbrica anziché alle Commissioni interne e che si diano come
obiettivo la gestione autonoma degli stabilimenti invece che il semplice
controllo sulla produzione.
Mentre la proposta di Gramsci
consegue un vivo consenso tra gli operai torinesi (i
primi Consigli di fabbrica d’Italia nascono proprio a Torino,
a partire dalla Fiat Centro: in vari stabilimenti, ogni officina e squadra
di lavoro, gli operai nominano i propri commissari e questi ultimi confluiscono
nei Comitati di reparto, il cui insieme forma il Consiglio di fabbrica),
il primo ministro, il liberale Giovanni Giolitti, paventando una svolta
rivoluzionaria dell’occupazione in corso, organizza una mediazione
tra la Cgdl, la cui direzione è in prevalenza d’orientamento
riformista, e la Lega industriale.
Il 19 settembre 1920, le parti
si accordano per firmare il contratto: i lavoratori ottengono la regolare
retribuzione del lavoro svolto durante l’occupazione, un congruo
aumento salariale, sei giorni di ferie pagati l’anno ed un’indennità
in caso di licenziamento; da parte sua, il governo s’impegna a
presentare alla Camera una proposta di legge che sancisca il controllo
sindacale sulla produzione, ma non manterrà mai tale promessa.