Intervista rilasciata dalla Sig.ra Augustina Bellettati il 6 maggio 2003 presso la sede dell’ANPI di Rivoli Mi chiamo Bellettati Augustina. .......Sono nata il 23 agosto 1918 a Copparo, in provincia di Ferrara. Siamo venuti a Rivoli nel 1925. La famiglia era numerosa perché eravamo dodici figli. Siamo sempre vissuti a Rivoli. .........Mio marito Giuseppe, allora non eravamo ancora sposati, faceva il calzolaio al Castello. Dei vicini di casa gli hanno detto che i tedeschi cercavano dei calzolai ma lui si è rifiutato di lavorare per loro. Aveva tre fratelli militari che erano stati fatti prigionieri e non sapeva dove fossero. È scappato in montagna assieme al papà di Bruno Simioli e sono andati nelle Valli di Lanzo.
Eravamo sposati solo in comune. Mio marito lavorava in casa ma andava a battere il cuoio da un cognato, anche lui calzolaio, per non farsi sentire, perché dietro la nostra casa, in via Alberto da Rivoli, nella villa dei signori Dell’Acqua c’erano i tedeschi. La sera in cui li hanno presi mio marito era andato a portare sei paia di scarpe ai partigiani, dicendo che sarebbe tornato presto perché alle otto e mezzo c’era il coprifuoco. Quando non l’ ho visto arrivare ero terrorizzata, ma non potevo uscire e così la mattina presto, finito il coprifuoco, sono andata da mia mamma. Appena arrivata ho visto la bicicletta di mio marito e allora mia mamma mi ha detto che quelli della Folgore, i fascisti, erano venuti e li avevano portati via tutti. Noi abitavamo nella casa di Tavolata, in via Castelrotto, oggi via Luigi Gatti, e sopra di noi al primo piano c’era uno che ha fatto la spia. I miei fratelli non erano più venuti a casa da un po’ di tempo e siccome erano andati a prendere un vitellino ai Tetti di Rivoli avevano approfittato dell’occasione per venire a trovare mia mamma che non stava bene. Simioli era andato a trovare la moglie e il bambino piccolo di due anni. Mio marito non ha fatto in tempo ad arrivare che subito sono venuti i fascisti a bussare alla porta, ma non aveva paura perché erano disarmati e pensava che non potesse succedere niente. È stato mio fratello più giovane, che non aveva ancora quindici anni, ad aprire la porta. I miei fratelli si erano nascosti nella camera di noi ragazze e con loro c’era anche Simioli, che era scappato da casa sua passando da una porta che dava sul cortile. Così li hanno presi tutti.
Hanno portato via il papà di Bruno, mio marito e miei fratelli.
Erano i due grandi e il più piccolo che non aveva ancora quindici anni. Hanno portato via anche lui e l’ hanno tenuto nella Casa del Fascio. E allora io sono andata dal geometra Rosa che mi ha dato dei biglietti da mille e centomila per ricomprare il buono con il quale i miei fratelli avevano potuto prendere il vitello. Sono andata ai Tetti con Abe, il fratello di Bruno Simioli, che aveva tredici anni, ma non ho potuto comprare il buono perché a mezzanotte erano andati i fascisti e l’avevano preso loro. Quando ho sentito così non ho più dato i soldi. Sono andata alla Casa del Fascio e ho visti i miei fratelli e mio marito da una finestra; mi facevano segno di stare tranquilla, perché non avevano armi, non avevano niente. Quando sono andata a parlare con alcune persone che conoscevo ho visto un manifesto su cui era scritto: “Saranno fucilati i traditori della patria” con il nome dei miei fratelli, di mio marito e di Simioli. Sono tornata di nuovo alla Casa del Fascio perché volevo parlare con i miei fratelli, ma non mi è stato possibile. E poi li ho visti quando li hanno portati in piazza, oggi Piazza Martiri, legati con il filo di ferro, per fucilarli. Lì c’era don Luigi Morello che mi ha chiesto se eravamo sposati e quando gli ho detto che non eravamo sposati in chiesa lui ha tentato il tutto per tutto, chiedendo di lasciare mio marito perché volevamo sposarci. Siccome i fascisti hanno risposto che non avrebbero rilasciato nessuno il prete ha detto:”Comunque la volontà di un moribondo non si può negarla”; allora lo hanno slegato e don Luigi ci ha sposati. Hanno liberato il più piccolo dei miei fratelli. Li hanno fucilati davanti alla chiesa di Sant’Agostino, dove adesso c’è la banca San Paolo ed io sono andata lì per vederli, per dire loro una parola di conforto. Quando hanno mitragliato Don Luigi mi ha buttato a terra e così mi ha salvato la vita, perché hanno mitragliato la sua tonaca. Poi sono andata di nuovo alla Casa del Fascio perché c’era l’altro fratello, c’erano Giovanni, Ultimo, Giuseppe, Gisippo, che non sapevano niente di ciò che era successo.
Sono stati fucilati mio fratello Decimo, mio marito Venturello Giuseppe, e l’altro fratello Alvaro l’ hanno salvato, l’ hanno sempre tenuto lì da loro. Allora i signori Rosa, che avevano la concessionaria F.I.A.T., hanno pensato di mandare mio fratello Alvaro a Riva del Garda in una fabbrica, piuttosto che lasciarlo nella Casa del Fascio. La domanda è stata accolta e mio fratello da là ci scriveva che stava bene e che era tutto tranquillo. Poi ho saputo che una mattina sono arrivati i tedeschi che andavano al Brennero, hanno fatto una mitragliata; c’erano due o tremila operai, ne hanno presi cinque. Fra i cinque c’era mio fratello. Così quattro mesi dopo, l’11 giugno, è morto a Riva del Garda e poi lo hanno riportato a Rivoli dove lo hanno sepolto.
Nel ’44. Il 29 di gennaio del 1944, a mezzogiorno, era un venerdì. E avevano aspettato che arrivasse tutta la gente che tornava a casa dal lavoro per fare vedere cosa sapevano fare, perché per loro i partigiani erano delinquenti, erano persone che mandavano a ramengo l’Italia. Mio fratello più piccolo, quello che aveva ventidue anni, prima di morire ha mandato a dire a mia madre che lui non aveva mai ucciso nessuno, che non sapeva neanche cosa volesse dire uccidere. Mio marito mi aveva detto di scrivere ai suoi per dire che stava bene e io non potevo scrivere che era stato ammazzato, perché c’era la censura e lettere arrivavano aperte, quando arrivavano. Simioli mi ha chiesto di dire alla moglie che era in gravidanza che se fosse nato un maschio doveva dargli il suo nome e così è stato. Sono passati cinquantanove anni ma ho ancora davanti agli occhi tutto quello che ho visto. Li hanno lasciati lì, in mezzo alla strada, ed io ho cercato di asciugare il sangue con un fazzoletto. Sono arrivati dei fascisti e volevano togliere gli scarponi a mio fratello; erano gli scarponi ricevuti dagli inglesi quando facevano dei lanci dagli aerei per aiutare i partigiani. Mio marito aveva gli stivali che si era fatto lui. E mentre io piangevo perché non volevo che glieli togliessero sono arrivati i tedeschi che hanno minacciato i fascisti con le armi e hanno detto: “Se voi toccare questi ragazzi, noi fucilare voi”. Ho continuato a lavorare e sono andata a vivere con mia mamma. Quel disgraziato che aveva fatto la spia se n’era andato da Rivoli. Allora mi sono informata perché volevo sapere dove fosse e una signora di Rivoli il cui marito era un ex maresciallo delle SS mi ha detto che era comandante dei partigiani nella caserma Fatebenefratelli di Milano. Era sottotenente! Sono andata con la mamma e la moglie di Simioli a Milano perché volevo ammazzarlo e avevo un’ arma con me. Nella caserma c’erano gli americani e io ho detto che volevo parlare con quel signore. Ho fatto vedere il medaglione con la foto dei miei due fratelli e di mio marito e ho detto che erano stati fucilati in seguito alla sua spiata e che la signora Simioli aveva perso il marito e aveva sette bambini. Lo hanno fatto chiamare e quando l’ ho visto gli sono saltata addosso, lui ha cercato di scappare ma i partigiani che erano lì lo hanno circondato. Gli ho detto che era un disgraziato, che si era venduto per dodicimila lire che gli avevano promesso e che poi non gli avevano dato. Un ufficiale americano mi ha preso la borsa nella quale avevo l’arma. Quando hanno saputo quello che aveva fatto lo hanno mandato a Torino dove è stato processato il 26 o 27 di gennaio ed è stato condannato a venticinque anni di carcere. Dopo sei mesi l’altro fratello più vecchio che lavorava alla F.I.A.T. lo ha visto a Torino; è sceso dal tram ma lo ha perso di vista. In seguito abbiamo saputo che faceva il contrabbandiere e che era stato ucciso dagli italiani mentre attraversava il confine. Ha vissuto undici anni in quel modo lì, comunque è stato ucciso anche lui. |