1900 Anni Quaranta, eravamo in guerra e la morte veniva dal
cielo. Ogni sera quando vedevamo tramontare il sole ci
domandavamo se l’avremmo visto sorgere il mattino successivo. I
bombardieri venivano come ladri di notte a rubarci la vita. Ogni
sera pensavamo questa notte verranno e l’angoscia ci serrava il
cuore finché il lugubre suono della sirena ci strappava al
nostro sonno convulso. In quelle condizioni di angosciosa attesa
l’augurio sogni d’oro suonava ironico. I genitori dicevano : “
lesti bambini … sono qui”. Scendevamo nei rifugi calmi, con
ordine. Ormai eravamo abituati a quel rito notturno. Gi aerei
venivano ad ondate, nell’intervallo tra un’ondata e l’altra i
giovani e le ragazze intonavano sommessi cori, gli altri
chiacchieravano, scherzavano e ridevano. Ma era un riso amaro il
loro, si rideva per non piangere, avevamo paura, saremmo stati
degli incoscienti a non averne, ma non ci mancava certo il
coraggio necessario a vincerla.
I giorni successivi all’incursioni qua e là per la città
vedevamo mucchi di macerie dove poche ore prima c’erano case
pulsanti di vita. Un canto dell’epoca diceva:
“ E’ primavera sfollati torinesi
Le bombe inglesi
Cadranno a mille
Sulla città”
Eppure i torinesi continuavano a vivere la loro vita
quotidiana, non indifferenti, non rassegnati, ma con grande
coraggio. Non si sentiva un’imprecazione, non un lamento, si
serravano i denti e si andava avanti . A quell’epoca il poeta
torinese Nino Costa scriveva in una poesia sui bombardamenti
che in tanta tristezza, in tanta pena, ci confortava constatare
che la nostra razza antica era ancora la razza di Pietro
Micca. La guerra faceva maturare in fretta anche noi bambini ,
privati della spensieratezza dell’età, coscienti che ogni notte
di bombardamento poteva essere l’ultima della nostra vita che
cominciavamo appena a gustare.
Circolava una preghiera in versi che recitava :
Ave Maria grazia plena
Fa che non suoni la sirena
Fa che non vengano gli aeroplani
E dormire possa fino a domani
Tu lo sai o buona madonnina
Che ogni sera andiamo in cantina
E tu lo sai o caro buon Gesù
Che qui in Italia non si dorme più…..
Ma in quella tragica notte si scatenò su Torino, con un
accanimento e una furia insolita, una tempesta di ferro e di
fuoco. E non è stata la peggiore purtroppo, una notte infernale.
Era una notte di Maggio, con un’aria tiepida di primavera, che
mi piaceva tanto respirare. Al suono della sirena mi prese
un’inquietudine che non avevo mai provato nelle precedenti
incursioni. Quel sesto senso che hanno i bambini mi diceva che
quella non era una notte come le altre. Sentivo un turbamento,
un’angoscia che non mi riuscivo spiegare. Sentivo una sinistra
presenza: la morte in agguato con la falce in mano, la mano
adunca del destino su di noi. Vedevo che anche gli altri bambini
quella notte erano insolitamente silenziosi e pensosi, sentivano
anch’essi come me un oscura minaccia, un brutto presentimento?
Mi chiedevo, cos’è questa mia ansia? E’ giunta la nostra ora?
Ma subito mi vergognai della mia paura, mi imposi la calma e
sorrisi di quel momento di debolezza. Vedevo che gli adulti
erano tranquilli.
Poco dopo sentii il rombo degli aerei che volavano ora in alto
ora in basso sopra di noi e i colpi della contro aerea. Sentivo
il sibilo e gli schianti delle bombe che cadevano ora vicine ora
lontane. I genitori guardavano preoccupati i loro bambini
spaventati, penso più in ansia per loro che per se stessi. Ad un
tratto mancò la luce, succedeva spesso durante i bombardamenti
ed avevamo sempre delle pile in tasca nel rifugio. In quei
giorni avevo letto un libro sulle popolazioni cosiddette
primitive. Quando due tribù scendevano in guerra tra loro
segnavano le capanne dove c’erano anziani, donne e bambini con
delle foglie di palma. Durante le incursioni della tribù nemica
quelle capanne venivano rispettate. Ma noi, uomini civili,
avevamo inventato i bombardamenti a tappeto che distruggevano le
case dove morivano civili innocenti con donne e bambini, senza
alcuna pietà. Presto la luce tornò. Poi gli schianti si fecero
così vicini che tememmo il peggio. Ci guardammo smarriti l’un
altro. Sentivamo gli aerei che volavano bassi su di noi. Gli
scoppi si fecero assordanti. Le madri si stringevano ai loro
bambini piangendo con loro, forse pensavano ad Erode e alla
strage degli innocenti. Una di loro alzò gli occhi al cielo,
mormorando una breve preghiera, poi baciò il capo della sua
creatura. Elsa, la mia sorella maggiore, ormai adolescente mi
abbracciò strettamente, quasi a volermi proteggere. Le schegge
di una bomba, scoppiata chissà dove, avevano tagliato il
sacchetto posto a protezione della finestrella che dava sulla
strada e sentivamo il fruscio della sabbia contenuta che
precipitava nel rifugio. Un inquilina malata svenne. Sua
figlia, una bimbetta tra i quattro e cinque anni la chiamava
piangendo. Dopo che la madre fu rianimata, vedendo la
figlioletta che la guardava piangendo spaventata, le sorrise
aprendole le braccia. La bimba corse da lei abbracciandola e con
la testina appoggiata al petto materno singhiozzava: “ non
morire, mamma, non morire!” . La madre la coprì di baci. Il
padre cercava di tranquillizzarla dicendo: “ Non è niente, Tina,
non è niente, ora la mamma sta bene”. E la madre : “ No, amore,
non sto morendo, resto qui con te e papà. Sono stata male, ma
ora è passato”.
Un’ inquilina anziana pregava con voce alta e così strozzata
dal terrore che pareva pregasse in cinese. Un prete, ospite di
una famiglia, per farci coraggio ci recitò le preghiere per i
moribondi e ci diede la soluzione “ In articolo
mortis” . Pensate avevamo il vantaggio di essere
accompagnati in paradiso da un ministro di Dio! Non era da tutti
sotto le bombe. Ma io pensavo che il paradiso poteva aspettare:
non avevo fretta di andarci e lo penso ancora oggi che sono un
ultra ottantenne e la mia vita l’ho vissuta. Ora a distanza di
anni ci scherzo sopra, ma vi confesso che quella notte non
ridevo, nessuno rideva!
In quell’inferno vedevo infrangersi i miei sogni per
l’avvenire, le mie speranze di bambino, tutto l’amore che avrei
potuto dare e ricevere nella mia vita ancora tutta da vivere.
Portare i pantaloni lunghi come papà, diventare un uomo come
papà, ma quella notte vedevo la morte negli occhi. Uno scoppio,
uno schianto e da me sarebbe fuggito l’avvenire e allora niente
più sogni, niente più speranze, addio amore, tutto sarebbe
finito nella fredda terra, nella buia terra e io avevo paura del
buio. La guerra non mi avrebbe lasciato che il tempo di essere
un bambino. Che ne sa la morte dei nostri affetti, dei nostri
sentimenti. Ebbi un moto di ribellione “no Dio no” Pensavo “
Non voglio morire, non ho ancora nove anni, non è giusto morire
alla mia età, morire davvero, morire a questo modo. Voglio
vedere ancora la calda luce del sole, i prati e gli alberi in
fiore a primavera. Non voglio che muoiano i miei cari. Voglio
che nessuno debba morire. Nessuno! Io voglio bene a tutti e
tutti mi vogliono bene. Vivere mio Dio, vivere, il dono più
bello che ci sia. Perché ci fanno questo? Che cosa abbiamo fatto
di male per morire?”
Poi il rombo dei motori degli aerei si allontanò e tirammo un
sospiro di sollievo.
Poco per volta anche noi bambini ci calmammo. Elsa mi guardò e
abbozzò un timido sorriso. Per il momento l’avevamo scampata ma
l’incubo rimaneva.
Non sentendo la sirena del cessato allarme, sapevamo per
esperienza che quella era la calma che precede una tempesta
forse peggiore. Qualcuno mormorava “ Che il cielo ce la mandi
buona! “ Sentimmo un passo che scendeva le scale e entrava nel
corridoio. Si spalancò la porta e si affacciò il custode che ci
gridò: “ C’è tutta Torino che brucia! .
Approfittando della pausa lasciai il rifugio e uscii in strada.
Il cielo era tutto rosso dagli incendi. Davanti a quel cielo di
fuoco provai una stretta al cuore e cocenti lacrime mi salirono
agli occhi. Amavo Torino, era la mia città natale e soffrivo nel
vederla ridotta ad un braciere. Due militi dell’ UNPA (Unione
Nazionale Protezione Antiaerea) giunti lì nel loro giro
d’ispezione mi si avvicinarono dicendomi:
“ Bambino cosa fai qui tutto solo? E’ pericoloso. Ti sei perso?
“ .
“ No, non mi sono perso. Abito lì,” risposi indicando il portone
di casa.
“ Ma perché sei uscito dal rifugio – mi dissero- c’è ancora
pericolo. Torna subito dentro”. Poi vedendo che piangevo mi
chiesero: “ perché piangi?”.
“ Guardate povera Torino” risposi indicando il cielo rosso per
gli incendi. I due uomini in divisa si guardarono, uno di loro
sospirò:
“ Eh si! Povera Torino, fa pena” e l’altro si chinò su di me e
accarezzandomi mi disse:
“Ora ritorna nel rifugio i tuoi genitori saranno preoccupati non
vedendoti. Senti stanno tornando. Tra poco torneranno a cadere
le bombe”.
Sentivo nell’aria il rombo degli aerei che stavano arrivando con
il loro carico di morte e distruzione.
“ Ma non basta ancora”- gridai scoppiando in un pianto dirotto-
ci vogliono ammazzare tutti? Povera Torino ti vogliono morta”.
I bravi militi ebbero il loro bel da fare a calmarmi. Uno di
loro mi diceva:
“ No, non fare così, siamo in guerra e bisogna essere forti” e
l’altro sentivo che mormorava:“ Povero bambino che pena”.
Poi mi dissero: “ Ora torna nel rifugio, li senti, sono qui
sopra di noi, non c’è tempo da perdere! Mentre si sentiva
sempre più forte il rombo dei motori degli aerei, i primi colpi
della contraerea e il fascio di luce dei riflettori frugava il
cielo mi accompagnarono in tutta fretta fino al portone di casa,
raccomandando di scendere subito nel rifugio. Prima di scendere
mi fermai un attimo nel cortile ad asciugarmi le lacrime.
Pensavo che vedendomi piangere per quello che avevo visto forse
gli altri bambini, alcuni più piccoli di me, avrebbero potuto
allarmarsi. “ Maledetta guerra – pensavo – ci piaceva tanto
giocare alla guerra! Ora che la guerra c’è davvero nessuno più
ci gioca.
In quel momento un bengala lanciato da un aereo illuminò a
giorno la città. Strano non avevo più paura, evidentemente dopo
quei momenti tragici scattava qualcosa in noi che ci dava la
forza necessaria ad affrontare il pericolo. Una grande forza, un
insospettato coraggio mi sosteneva, ma una grande pena, quella
si che la sentivo come una spina nel cuore.
Scesi nel rifugio mentre si stava scatenando di nuovo l’inferno.
Nessuno si era accorto della mia breve assenza né che avevo
pianto. Erano passate, credo, le due del mattino quando
finalmente suonò la sirena del cessato allarme, lasciammo il
rifugio, con i bimbi più piccoli addormentati in braccio alle
mamme.
Il giorno dopo non andammo a scuola. Se il bombardamento fosse
durato oltre la mezzanotte saremmo andati a scuola un ora dopo
l’orario normale. Ma essendosi protratto oltre le due del
mattino c’era concesso di stare a casa!
Per le strade camminavamo sui frammenti dei vetri infranti dalla
spostamento d’aria provocato dalle esplosioni. Li sentivamo
scricchiolare sotto i piedi. Tante case non c’erano più, al loro
posto un mucchio di macerie. Con un mio compagno di scuola, mi
fermai davanti ad una casa distrutta commentando il
bombardamento della notte. Io dicevo :“ Non ho mai visto una
cosa simile!” Sentii una mano che si posava sul mio capo e una
voce grave di adulto che mi diceva: “ Non l’ha mai vista
nessuno, cosa vuoi aver visto tu che sei nato ieri! “ Mi voltai
e vidi un signore di mezza età, lessi nel suo sguardo una
tenerezza paterna. Ci guardava e mormorava : “Poveri bambini, in
mezzo a quanto pericolo e a quanta paura vi tocca crescere “
Vidi che una lacrima gli brillava negli occhi.
stampa il testo |