TORINO sotto le bombe

ricordi e testimonianze di un ragazzo del '31: Enrico Guglielmi

Enrico Guglielmi nato a Torino il 13 ottobre 1931
 

 

1900 Anni Quaranta, eravamo in guerra e la morte veniva dal cielo. Ogni sera quando vedevamo tramontare il sole ci domandavamo se l’avremmo visto sorgere il mattino successivo. I bombardieri venivano come ladri di notte a rubarci la vita. Ogni sera pensavamo questa notte verranno e l’angoscia ci serrava il cuore finché il lugubre suono della sirena ci strappava al nostro sonno convulso. In quelle condizioni di angosciosa attesa l’augurio sogni d’oro suonava ironico. I genitori dicevano :  “ lesti bambini … sono qui”. Scendevamo nei rifugi calmi, con ordine. Ormai eravamo abituati a quel rito notturno. Gi aerei venivano ad ondate, nell’intervallo tra un’ondata e l’altra i giovani e le ragazze intonavano sommessi cori, gli altri chiacchieravano, scherzavano e ridevano. Ma era un riso amaro il loro, si rideva per non piangere, avevamo paura, saremmo stati degli incoscienti a non averne, ma non ci mancava certo il coraggio necessario a vincerla.

I giorni successivi all’incursioni qua e là per la città vedevamo mucchi di macerie dove poche ore prima c’erano case pulsanti di vita. Un canto dell’epoca diceva:

“ E’ primavera sfollati torinesi

  Le bombe inglesi

  Cadranno a mille

  Sulla città”

Eppure i torinesi continuavano a vivere la loro vita quotidiana, non indifferenti, non rassegnati, ma con grande coraggio. Non si sentiva un’imprecazione, non un lamento, si serravano i denti e si andava avanti . A quell’epoca il poeta torinese Nino Costa scriveva in una poesia sui bombardamenti  che in tanta tristezza, in tanta pena, ci confortava constatare che la nostra razza antica era ancora la razza di Pietro Micca.   La guerra faceva maturare in fretta anche noi bambini , privati della spensieratezza dell’età, coscienti che ogni notte di bombardamento poteva essere l’ultima della nostra vita che cominciavamo appena a gustare.

  Circolava una preghiera in versi che recitava :

Ave Maria grazia plena

Fa che non suoni la sirena

Fa che non vengano gli aeroplani

E dormire possa fino a domani

Tu lo sai o buona madonnina

Che ogni sera andiamo in cantina

E tu lo sai o caro buon Gesù

Che qui in Italia non si dorme più…..

  Ma in quella tragica notte si scatenò su Torino, con un accanimento e una furia insolita, una tempesta di ferro e di fuoco. E non è stata la peggiore purtroppo, una notte infernale. Era una notte di Maggio,  con un’aria tiepida di primavera, che mi piaceva tanto respirare. Al suono della sirena mi prese un’inquietudine che non avevo mai provato nelle precedenti incursioni. Quel sesto senso che hanno i bambini mi diceva che quella non era una notte come le altre. Sentivo un turbamento, un’angoscia che non mi riuscivo spiegare. Sentivo una sinistra presenza: la morte in agguato con la falce in mano, la mano adunca del destino su di noi. Vedevo che anche gli altri bambini quella notte erano insolitamente silenziosi e pensosi, sentivano anch’essi come me un oscura minaccia, un brutto presentimento? Mi chiedevo,  cos’è questa mia ansia? E’ giunta la nostra ora? Ma subito mi vergognai  della mia paura, mi imposi la calma e sorrisi di quel momento di debolezza. Vedevo che gli adulti erano tranquilli.

  Poco dopo sentii il rombo degli aerei che volavano ora in alto ora in basso sopra di noi e i colpi della contro aerea.  Sentivo il sibilo e gli schianti delle bombe che cadevano ora vicine ora lontane. I genitori guardavano preoccupati i loro bambini spaventati, penso più in ansia per loro che per se stessi. Ad un tratto mancò la luce, succedeva spesso durante i bombardamenti ed avevamo sempre delle pile in tasca nel rifugio. In quei giorni avevo letto un libro sulle popolazioni cosiddette primitive. Quando due tribù scendevano in guerra tra loro segnavano le capanne dove c’erano anziani, donne e bambini con delle foglie di palma. Durante le incursioni della tribù nemica quelle capanne venivano rispettate. Ma noi, uomini civili, avevamo inventato i bombardamenti a tappeto che distruggevano le case dove morivano civili innocenti con donne e bambini, senza alcuna pietà. Presto la luce tornò. Poi gli schianti si fecero così vicini che tememmo il peggio. Ci guardammo smarriti l’un altro. Sentivamo gli aerei che volavano bassi su di noi. Gli scoppi si fecero assordanti.  Le madri si stringevano ai loro bambini piangendo con loro, forse pensavano ad Erode e alla strage degli innocenti. Una di loro alzò gli occhi al cielo, mormorando una breve preghiera, poi baciò il capo della sua creatura. Elsa, la mia sorella maggiore, ormai adolescente mi abbracciò strettamente, quasi a volermi proteggere. Le schegge di una bomba, scoppiata chissà dove, avevano tagliato il sacchetto posto a protezione della finestrella che dava sulla strada e sentivamo il fruscio della sabbia contenuta che precipitava nel rifugio.  Un inquilina malata svenne. Sua figlia, una bimbetta tra i quattro e cinque anni la chiamava piangendo. Dopo che la madre fu rianimata, vedendo la figlioletta che la guardava piangendo spaventata, le sorrise aprendole le braccia. La bimba corse da lei abbracciandola e con la testina appoggiata al petto materno singhiozzava: “ non morire, mamma, non morire!” . La madre la coprì di baci. Il padre cercava di tranquillizzarla dicendo: “ Non è niente, Tina, non è niente, ora la mamma sta bene”.  E la madre : “ No, amore, non sto morendo, resto qui con te e papà. Sono stata male, ma ora è passato”.

 Un’ inquilina anziana pregava con voce alta e così strozzata dal terrore che pareva pregasse in cinese. Un prete, ospite di una famiglia, per farci coraggio ci recitò le preghiere per i moribondi e ci diede la soluzione “ In articolo mortis” .  Pensate avevamo il vantaggio di essere accompagnati in paradiso da un ministro di Dio! Non era da tutti sotto le bombe. Ma io pensavo che il paradiso poteva aspettare: non avevo fretta di andarci e lo penso ancora oggi che sono un ultra ottantenne e la mia vita l’ho vissuta.  Ora a distanza di anni ci scherzo sopra, ma vi confesso che quella notte non ridevo, nessuno rideva!

  In quell’inferno vedevo infrangersi i miei sogni per l’avvenire, le mie speranze di bambino, tutto l’amore che avrei potuto dare e ricevere nella mia vita ancora tutta da vivere. Portare i pantaloni lunghi come papà, diventare un uomo come papà, ma quella notte vedevo la morte negli occhi. Uno scoppio, uno schianto e da me sarebbe fuggito l’avvenire e allora niente più sogni, niente più speranze, addio amore, tutto sarebbe finito nella fredda terra, nella buia terra e io avevo paura del buio. La guerra non mi avrebbe lasciato che il tempo di essere un bambino. Che ne sa la morte dei nostri affetti, dei nostri sentimenti. Ebbi un moto di ribellione  “no Dio no”  Pensavo  “ Non voglio morire, non ho ancora nove anni, non è giusto morire alla mia età, morire davvero, morire a questo modo. Voglio vedere ancora la calda luce del sole, i prati e gli alberi in fiore a primavera. Non voglio che muoiano i miei cari. Voglio che nessuno debba morire. Nessuno! Io voglio bene a tutti e tutti mi vogliono bene. Vivere mio Dio, vivere, il dono più bello che ci sia. Perché ci fanno questo? Che cosa abbiamo fatto di male per morire?”

Poi il rombo dei motori degli aerei si allontanò e tirammo un sospiro di sollievo.

Poco per volta anche noi bambini ci calmammo. Elsa mi guardò e abbozzò un timido sorriso. Per il momento l’avevamo scampata ma l’incubo rimaneva.

Non sentendo la sirena del cessato allarme, sapevamo per esperienza che quella era la calma che precede una tempesta forse peggiore. Qualcuno mormorava “ Che il cielo ce la mandi buona! “ Sentimmo un passo che scendeva le scale e entrava nel corridoio. Si spalancò la porta e si affacciò il custode che ci gridò: “ C’è tutta Torino che brucia! .

Approfittando della pausa lasciai il rifugio e uscii in strada. Il cielo era tutto rosso dagli incendi. Davanti a quel cielo di fuoco provai una stretta al cuore e cocenti lacrime mi salirono agli occhi. Amavo Torino, era la mia città natale e soffrivo nel vederla ridotta ad un braciere. Due militi dell’ UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea)  giunti lì nel loro giro d’ispezione mi si avvicinarono dicendomi:

“ Bambino cosa fai qui tutto solo? E’ pericoloso. Ti sei perso? “ .

“ No, non mi sono perso. Abito lì,” risposi indicando il portone di casa.

“ Ma perché sei uscito dal rifugio – mi dissero- c’è ancora pericolo. Torna subito dentro”. Poi vedendo che piangevo mi chiesero: “ perché piangi?”.

“ Guardate povera Torino” risposi indicando il cielo rosso per gli incendi. I due uomini in divisa si guardarono, uno di loro sospirò:

“ Eh si! Povera Torino, fa pena” e l’altro si chinò su di me e accarezzandomi mi disse:

“Ora ritorna nel rifugio i tuoi genitori saranno preoccupati non vedendoti. Senti stanno tornando. Tra poco torneranno a cadere le bombe”.

Sentivo nell’aria il rombo degli aerei che stavano arrivando con il loro carico di morte e distruzione.

“ Ma non basta ancora”- gridai scoppiando in un pianto dirotto- ci vogliono ammazzare tutti? Povera Torino ti vogliono morta”.

I bravi militi ebbero il loro bel da fare a calmarmi. Uno di loro mi diceva:

“ No, non fare così, siamo in guerra e bisogna essere forti” e l’altro sentivo che mormorava:“ Povero bambino che pena”.

Poi mi dissero: “ Ora torna nel rifugio, li senti, sono qui sopra di noi, non c’è tempo da perdere!  Mentre si sentiva sempre più forte il rombo dei motori degli aerei, i primi colpi della contraerea e il  fascio di luce dei riflettori frugava il cielo mi accompagnarono in tutta fretta fino al portone di casa, raccomandando di scendere subito nel rifugio. Prima di scendere mi fermai un attimo nel cortile ad asciugarmi le lacrime. Pensavo che vedendomi piangere per quello che avevo visto forse gli altri bambini, alcuni più piccoli di me, avrebbero potuto allarmarsi. “ Maledetta guerra – pensavo – ci piaceva tanto giocare alla guerra! Ora che la guerra c’è davvero nessuno più ci gioca.

In quel momento un bengala lanciato da un aereo illuminò a giorno la città. Strano non avevo più paura, evidentemente dopo quei momenti tragici scattava qualcosa in noi che ci dava la forza necessaria ad affrontare il pericolo. Una grande forza, un insospettato coraggio mi sosteneva, ma una grande pena, quella si che la sentivo come una spina nel cuore.

Scesi nel rifugio mentre si stava scatenando di nuovo l’inferno. Nessuno si era accorto della mia breve assenza né che avevo pianto. Erano passate, credo, le due del mattino quando finalmente suonò la sirena del cessato allarme, lasciammo il rifugio, con i bimbi più piccoli addormentati in braccio alle mamme.

Il giorno dopo non andammo a scuola. Se il bombardamento fosse durato oltre la mezzanotte saremmo andati a scuola un ora dopo l’orario normale. Ma essendosi protratto oltre le due del mattino c’era concesso di stare a casa!

Per le strade camminavamo sui frammenti dei vetri infranti dalla spostamento d’aria provocato dalle esplosioni. Li sentivamo scricchiolare sotto i piedi. Tante case non c’erano più, al loro posto un mucchio di macerie. Con un mio compagno di scuola, mi fermai davanti ad una casa distrutta commentando il bombardamento della notte. Io dicevo :“ Non ho mai visto una cosa simile!” Sentii una mano che si posava sul mio capo e una voce grave di adulto che mi diceva: “ Non l’ha mai vista nessuno, cosa vuoi aver visto tu che sei nato ieri! “ Mi voltai e vidi un signore di mezza età, lessi nel suo sguardo una tenerezza paterna. Ci guardava e mormorava : “Poveri bambini, in mezzo a quanto pericolo e a quanta paura vi tocca crescere “ Vidi che una lacrima gli brillava negli occhi.

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14 Luglio 1943

 Eravamo ormai in guerra da tre anni e Torino aveva subito pesanti bombardamenti.

 Chi poteva sfollava. Chi, per impegni di lavoro era costretto a rimanere, cercava di mettere in salvo almeno la famiglia. Ma non tutti ne avevano la possibilità. Ma non c’era nessun posto veramente sicuro. La guerra, diffusa come una peste, era dappertutto: non si moriva solo al fronte. Se nelle grandi città si moriva sotto le bombe in provincia si moriva talvolta mitragliati dagli aerei a volo radente. E venivano falciati i civili inermi. Quanti bambini furono mitragliati mentre andavano a scuola. Giunse così la terribile notte tra il 13 e il 14 Luglio 1943. Era una notte di luna piena. Nelle ore dei sogni dormivano le donne e i bambini, dormivano gli operai stanchi della giornata di lavoro. Si assopivano i malati negli ospedali e gli anziani, negli ospizi, dopo una vita di lavoro. Il loro sonno fu interrotto dall’urlo selvaggio  della sirena e arrivarono gli aerei con il loro carico di morte e distruzione e Torino fu assassinata  da una tempesta di ferro e di fuoco quale non si era mai vista prima, senza pietà per nessuno. La città era sola, senza difesa, e la luna l’illuminava scoprendola ai bombardieri. Le bombe caddero sulle povere case, sulle donne e sui bambini innocenti, sugli operai stanchi del lavoro, sui malati degli ospedali e sugli anziani degli ospizi. Giovani ed anziani, donne e bambini, ricchi e poveri, per tutti fu la stessa sorte. Intere famiglie perirono sotto le bombe o tra le fiamme degli incendi.

  Le bombe non risparmiarono neppure il cimitero dove i morti dormivano il loro sonno eterno. Alcune famiglie, non sentendosi sicure nelle cantine mal riparate e temendo di fare la morte del topo, cercarono scampo al Valentino o in collina. Tra i fuggiaschi mamme che invocavano la pietà divina con i bambini in braccio che piangevano terrorizzati: un’umanità spaventata. Ma furono mitragliati dagli aerei a volo radente, senza pietà. Cadevano gli uni sugli altri. Una adolescente, falciata dalle raffiche, fu vista cadere gridando come Gesù sulla croce : “ Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonata” né più si mosse. Instancabile, instancabile , morte, che con i genitori spegni le vite nuove. E gli incendi provocati dagli spezzoni divampavano ovunque in una visione da inferno dantesco. Presto Torino fu tutta un falò . Bruciavano le povere case, le chiese, le scuole. Ardevano come torce gli ospedali e gli ospizi. L’intera città era ridotta ad un immenso braciere.  Erano sconvolte le tombe al cimitero. Instancabile, instancabile, morte nel fuoco che tutto divora. Quella notte i torinesi credettero che della loro città non avrebbero lasciato che il Po e la collina. Le vittime furono quasi ottocento !

Il mattino successivo il fumo degli incendi oscurava il sole e pareva sera. Molti cadaveri furono estratti dalle macerie ridotti ad una massa sanguinolenta che aveva poco di umano, come bestie macellate. Molte madri furono trovate morte abbracciate ai figlioletti morti con loro, quasi a volerli ancora proteggere. Stringevano ancora al petto immoto i corpicini senza vita dei figlioletti con tanta forza che fu necessario rompere loro le braccia per toglierli. Come nella peste di manzoniana memoria, nella guerra diffusa come una peste il fiore ancora in boccio cadeva con il fiore già vigoroso sullo stelo al passare della falce che pareggia tutte le erbe del prato.

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