La
condizione di donne e
bambini
nei campi
di
concentramento
- il viaggio in vagoni merci - l’arrivo nei campi di concentramento - i bambini utilizzati come lavoratori - il destino dei
bambini
nei campi
di
concentramento - l’utilizzo come cavie per lo studio della tubercolosi - l’utilizzo di bambini gemelli come cavie - lo studio della malattia “Noma”
- esperimenti sulla sterilizzazione - esperimenti anatomici - organizzazione delle cavie - condizione dei neonati - solidarietà nei Lager -il destino dei neonati
Ravensbrück Il primo contingente di 867 donne arriva a Ravensbrück già nel maggio 1939. Si tratta in gran parte di comuniste, socialdemocratiche e testimoni di Geova tedesche. Nel settembre dello stesso anno, si aggiunge alla popolazione presente un trasporto di zingare con i rispettivi bambini. Poi altri trasporti di donne provengono dalla Cecoslovacchia, dall'Ungheria, dalla Polonia, dalla Francia, dall’Italia: insomma da tutti i paesi invasi ed occupati dalle truppe hitleriane. In breve il campo ospita 2.500 deportate il cui numero è destinato ad aumentare a 7.500, fino a raggiungere, sul finire della guerra, la mostruosa cifra di 45.000 presenze. Nel complesso, tenuto conto dei decessi e dei trasferimenti, sembra accertato che a Ravensbrück furono immatricolate 125.000 donne delle quali circa 95.000 persero la vita. Circa 1.000 furono le italiane (di cui 919 identificate). La 49.a unità della 2.a armata sovietica del fronte bielorusso ha liberato Ravensbrück il 30 aprile 1945. Il campo era stato in gran parte evacuato alcuni giorni prima. Rimasero ad attendere i liberatori circa 3.000 donne, alcuni bambini e pochi uomini ammalati, intrasportabili, tutti in condizioni pietose. La vita nei campi di concentramento Dopo la sveglia, fra le quattro e le cinque, d'estate, fra le sei e le sette, d'inverno, gli internati ricevevano un tozzo di pane e una scodella di zuppa leggera; incolonnati, si recavano poi all'appello nelle loro divise a strisce; indi raggiungevano il posto di lavoro, talvolta a passo di ginnastica o cantando, o persino al suono di un'orchestra. Il lavoro terminava verso le diciassette d'inverno e le venti d'estate, con un intervallo di mezz'ora per il pasto di mezzogiorno, consistente in un boccone di carne e margarina; facevano poi ritorno al campo e, dopo la zuppa e l'appello della sera, alle ventidue tutti dovevano essere coricati nelle loro cuccette di legno, solitamente due per cuccetta. L'arbitrio dei Kapo - prigionieri speciali che per motivi diversi possono godere di buone condizioni di vita, in cambio della collaborazione che essi forniscono alle SS - non trovava limite se non in quello delle SS; le punizioni piovevano in mille modi sotto ogni pretesto; le più frequenti erano: privazione del cibo, obbligo di rimanere in piedi sullo spiazzo dell'appello, colpi di bastone o di frusta, l'essere appesi a un albero o a un palo, carcere duro, ginnastica a digiuno nel freddo gelido del mattino; la sera avevano luogo le esecuzioni pubbliche, mediante bastonature o impiccagioni, per le gravi mancanze, ad esempio per i tentativi d'evasione. Il
sistema e i suoi risultati Non sarebbe esatto vedere nei campi di concentramento soltanto lo strumento di alcuni sadici tendenti a dar libero sfogo ai loro istinti; i campi erano l'applicazione di un sistema, che sarebbe divenuto definitivo con la vittoria dei nazisti, e che era in diretta dipendenza dalle loro concezioni politiche e morali sulla superiorità della razza e sul dominio esercitato per mezzo della violenza. L'insufficiente alimentazione causava fra gli internati ogni forma di malattia, dimagrimento sino ai gradi estremi, edemi mostruosi, cui si aggiungevano tutte le psicosi da fame. Il lavoro forzato, la promiscuità, l'assenza di ogni precauzione igienica e l'insufficienza di cure provocarono un elevato tasso di mortalità, aggravato per di più dalle epidemie di tifo. Nei blocchi di isolamento avevano luogo inoltre esperimenti pseudoscientifici: inoculazione della malaria e del tifo; castrazione e tentativi di sterilizzazione; ad alcuni soggetti venivano praticate bruciature al fosforo; altri, posti nelle condizioni di una persona che si trovi a 10.000 m d'alt., erano d'un tratto riportati alle condizioni ambiente; si facevano prove di resistenza ai gas e al freddo, e persino pratiche di vivisezione. Dal di fuori i campi potevano sembrare manicomi, per le divise grottesche degli internati, le inapplicabili misure d'igiene (“Un pidocchio è la tua morte”, diceva una scritta), i cartelli in cui si manifestava un incomprensibile e macabro umorismo (“Il lavoro rende liberi”), le proiezioni di documentari su località di villeggiatura... In realtà essi segnano il livello più basso cui mai sia potuta scendere la barbarie umana: l'“inferno organizzato”, i “campi della morte lenta” sono costati la vita a milioni di persone. Si
distinguono tre fasi nelle reazioni psicologiche dei prigionieri
La fase
di accettazione nel campo di
concentramento
Il primo shock è dovuto all’adattamento alle nuove condizioni di vita, all’atteggiamento delle guardie,a ciò che la persona si aspetta dal campo in cui verrà rinchiusa. Il prigioniero, prima di conoscere il vero e proprio internamento,entra in un delirio di grazia che lo fa sperare in un utopico lieto fine;poi egli comincia ad abbandonarsi al destino. In principio il detenuto tipo rifiuta di credere che la vita che sta vivendo sia la realtà. Con il
passare dei giorni l’internato comincia, per quanto possibile ad
abituarsi alla tragica routine del lager; così si passa alla fase
successiva, quella della vera e propria vita nel lager e si rende
conto di star iniziando una nuova orribile vita. La fase
della vita vera e propria nel lager Il prigioniero medio tende ad assumere una situazione psicologica abnorme,tuttavia in una situazione abnorme avere una reazione abnorme è il comportamento normale. Dopo la prima fase di shock il prigioniero, poco a poco muore internamente; si rinchiude in una apatia quasi disumana, il torpore e l’indifferenza lo conquistano totalmente. Il cinismo
si fa spazio nell’animo del detenuto che ha come unico fine la
sopravvivenza, che insegue, praticamente,con qualsiasi mezzo.
L’internato del campo di
concentramento
è coattamente respinto ad un livello primitivo e vive questa sua
nuova vita con una semplicità disarmante; infatti, i desideri che
egli sperimenta sono i più banali: un pasto caldo, qualche ora di
sonno vero in un letto comodo, rivedere i propri cari…Nel frattempo
l’abbandono al destino diventa totale,e quei pochi che tentano di
opporvisi perdono presto la speranza e con essa, spesso, la vita. Il
rilascio e la fase successiva Non mancano le eccezioni comportamentali; infatti ci sono anche persone che reagiscono eroicamente al tragico contesto, ma, praticamente sempre, pagano questo eroismo con la vita. In questo
clima passano i giorni, i mesi, gli anni , ma una volta giunta, per
quei pochi, la tanto agognata libertà, non si riesce ad assaporarla
né a viverla; la parola libertà è troppo logorata dai nostalgici
sogni ed il concetto troppo pallido, confrontato con la realtà si
dissolve. Inoltre il prigioniero che riesce a tornare alla propria
dimora, non viene accolto con particolare calore, ma freddezza – o
meglio con imbarazzato disagio -, allora lo sconforto lo
sommerge; si rende conto che la sofferenza è un burrone senza
fondo.Alcuni dei motivi che spingono alcuni internati a non
darsi per vinti è avere uno scopo futuro e poi questi si rendono
conto che ciò per cui hanno sperato non esiste più. Chi invece in un
modo nell’altro riesce a riavere la propria famiglia comincia una
vita nuova. Il
viaggio in vagoni merci Preludio della condizione disumana del lager è, infatti, il trasporto nei vagoni merci, che per le sue modalità vuole essere già una prima forma di selezione e di sterminio dei più deboli. I bambini ancora ignari dei lager, che soffrono la sete e soffocano, comprendono di trovarsi in una situazione imprevista e inimmaginabile, preludio di una catastrofe ancora più grande. Il ricordo
del trasporto resta indelebilmente impresso nella mente dei
sopravvissuti; si poteva ancora sperare e credere di restare in
vita, nonostante le restrizioni imposte dal nazismo, ogni illusione
cessa sui vagoni verso la deportazione. Così Liliana Segre,
all’epoca tredicenne, testimonia il clima irreale nel carro merci,
consapevole di quanto la aspetta. Il viaggio verso Auschwitz è uno
dei capitoli più terribili della Shoah. L’arrivo
nei campi
di
concentramento Una volta giunti a destinazione, solitamente per i bambini il lager è una situazione transitoria: la categoria dei Kinder non si annovera nel sistema concentrazionario nazista, giacché i bambini non hanno diritto ad esistere – essendo il futuro di un popolo. Giunti a destinazione, i bambini hanno pertanto scarsissime possibilità di sopravvivenza. Se molte madri scelgono di non separarsi dai figli qualunque sia la loro sorte, altre possono salvarsi solo allontanandosi dai bambini. A volte affidano ignare i figli a chi si offre di custodirli provvisoriamente, pensando di ritrovarli subito dopo nel lager. Può
addirittura accadere che qualche donna intuisca la sorte in ogni
modo segnata dei
bambini e li abbandoni al loro destino. Il gesto, per quanto sia
disumano, va compreso se inserito nella bestialità della
persecuzione e dei meccanismi comportamentali che induce, stimolando
l’istinto di sopravvivenza a qualunque costo. Il
destino dei
bambini nei
campi
di
concentramento Se immessi in campo, i bambini devono subire le medesime privazioni degli adulti, e il prezzo che i bambini devono pagare per essere presenti là dove la loro esistenza non è, appunto, neppure prevista, consiste nella minore speranza di vita rispetto agli adulti, più forti e resistenti di loro. Solitamente uccisi all’arrivo nei campi misti di lavoro sterminio, come Auschwitz-Birkenau, i piccoli si salvano a volte se appaiono più grandi della loro età o se mentono per essere inclusi tra gli adulti idonei al lavoro. Nei campi di solo sterminio i bambini non hanno alcuna possibilità di sopravvivenza, mentre nei campi misti di lavoro e di sterminio, i bambini hanno una maggiore, seppur esigua possibilità, di sopravvivenza. Non solo possono essere annoverati tra gli adulti per il lavoro, ma spesso sono tenuti in vita per essere oggetto di atroci esperimenti cosiddetti medici e scientifici – in realtà definibili come efferate crudeltà. I bimbi usati come cavie umane per lo più muoiono, ma se gli esperimenti condotti su di loro non sono prolungati e mortali, e se le circostanze impediscono agli aguzzini di avere il tempo per sopprimerli, in rari casi resistono sino alla liberazione
L’utilizzo come cavie per lo studio della tubercolosi Uno dei peggiori episodi di violenza nei confronti di piccoli riguarda il trasporto da Auschwitz a Neuengamme di venti bimbi – polacchi, francesi, olandesi, jugoslavi e il piccolo italiano Sergio De Simone – tra i cinque e i dodici anni, il 29 novembre del 1944. Prelevati dalla baracca con la menzognera promessa di vedere la mamma se si fanno avanti; da gennaio sono cavie umane per ricerche mediche sulla tubercolosi, il cui bacillo viene loro iniettato. In marzo i bambini sono ormai apatici e seriamente malati; con l’approssimarsi del fronte al lager di Neuengamme, il 20 aprile 1945 giunge da Berlino l’ordine di ucciderli.
L’utilizzo di
bambini gemelli come cavie
Particolarmente affascinato dai gemelli, il dottor Mengele
selezionava quelli che arrivavano ad Auschwitz da tutta Europa. Una
volta isolati dai propri genitori, i
bambini
venivano marchiati come gli altri prigionieri, ma con un numero
speciale al quale spesso veniva aggiunta la sigla “ZW” (per
“Zwillinge”).Arrivati alle baracche che avrebbero dovuto ospitarli;
per prima cosa venivano esaminati e misurati dalla testa alla punta
dei piedi. Gli esami iniziavano dalla testa, non sottoposta alla
rasatura, che veniva misurata accuratamente anche per più giorni.
Successivamente tutto il corpo veniva esaminato a raggi X.
Solitamente era applicato loro una specie di tubo al naso, che
insufflava nei polmoni un gas provocando una tosse violenta.
L’espettorato era raccolto ed esaminato. Infine i
bambini erano
fotografati, con particolare attenzione ai capelli e ai peli delle
ascelle. Il giorno successivo, di mattina presto venivano condotti
in una stanza nella quale vi era un tino con acqua calda e una serie
di tavole. Costretti ad immergersi nel tino, venivano poi legati ad
una tavola in modo che i capelli ricadessero all’esterno. Una parte
dei capelli veniva strappata in modo da estrarne la radice. Dopo
questa operazione, erano reimmersi nel tino; l’operazione veniva
ripetuta diverse volte. Quando il numero di capelli raccolti era stata ritenuta sufficiente, i bambini erano completamente rasati, depilati e nuovamente fotografati. La fase seguente consisteva nel praticare clisteri di due litri seguiti da esami rettali e gastrointestinali senza alcuna anestesia. Il giorno dopo era la volta di un esame urologico con prelevamento di tessuti dai reni, dalla prostata e – nei maschi – dai testicoli. Dopo tre settimane di esami i due gemelli venivano uccisi simultaneamente con un’iniezione al cuore; i cadaveri venivano dissezionati e gli organi interni inviati al professor Verschuer all’Istituto di ricerca biologico-razziale di Berlino. Questi procedimenti rappresentavano la norma, ma Mengele stava conducendo sui gemelli studi, in relazione a progetti condotti da Verschuer e dai suoi collaboratori. A Berlino
Verschuer ed il suo assistente, il biochimico Hillmann, si
interessavano allo studio delle proteine del sangue; inseguivano il
sogno di riuscire a trovare una differenza sostanziale tra il sangue
degli ebrei e quello degli ariani. Mengele si impegnava nell’operare
prelievi di sangue da inviare a Berlino; spesso il prelievo di
sangue era totale e terminava soltanto con la morte del bambino. I
bambini
utilizzati come lavoratori e la condizione nel campo di
Bergen-Belsen Nella maggior parte dei lager i bambini più grandi sono immessi nel sistema produttivo e non di rado lavorano con maggior lena. A Bergen-Belsen la presenza di un numero consistente di bambini deriva proprio dalla peculiarità del lager, scelto come campo di raccolta per specifiche categorie, tra i quali i titolari di nazionalità di Paesi neutrali e i rappresentanti di alcuni enti ebraici. Per questa ragione, i bambini godono di particolari cure: fino a quattordici anni possono alloggiare con le madri nelle baracche femminili; se hanno meno di tre anni sono esentati insieme alle madri dall’appello e vengono contati vicino alle loro baracche o all’interno, accanto ai letti; ricevono cibo quantitativamente e qualitativamente migliore di quello dei genitori. Anche l’educazione è oggetto di maggiori attenzioni. Spesso i bambini piccoli sono introdotti clandestinamente anche laddove sono ufficialmente banditi dal lager: molte madri tentano di salvare i loro piccoli addormentandoli con sonniferi e nascondendoli, altri genitori corrompono le guardie o sono aiutati da prigionieri caritatevoli a volte membri delle reti clandestine presenti nei campi nazisti.Fu però l’altruismo, fu il coraggio di molte donne a salvarne molti e a salvare soprattutto la loro mente dalla follia. Lo
studio della malattia nota con il nome di “Noma” Una “passione” di Mengele, inoltre, era lo studio di una malattia chiamata “Noma” (una cancrena che aggredisce il viso). Quando si accorse che i bambini zingari venivano particolarmente colpiti se ne interessò immediatamente. Credeva che questa particolare esposizione alla malattia fosse dovuta a predisposizione razziale. Il Noma però colpisce particolarmente soggetti in precarie condizioni di alimentazione e, quindi era chiaro che l’insorgere della malattia era dovuto alle condizioni dell’esistenza nei lager. Ovunque nei lager, l’aspetto più tragico della persecuzione nazista contro i bambini riguarda la rassegnazione con cui essi accolgono restrizioni e patimenti. L’adattamento all’assurdo appare proprio dalla naturalezza con cui i più piccoli si rapportano alla morte e alla sofferenza che li circonda, diversamente dagli adulti, i quali si scontrano con una volontà raziocinante di volta in volta frustrata. I bambini più piccoli, non sufficientemente maturi per capire la loro situazione, affrontano la vita concentrazionaria con uno sguardo estraniato e lontano, come se la realtà giungesse loro filtrata e attutita.
Esperimenti sulla sterilizzazione Da giovani prigioniere (anche diciottenni) e donne maritate si prelevavano campioni di tessuto dell'utero per essere in grado di giungere a diagnosi tempestive di eventuali tumori, con raggi X si sterilizzavano le ovaie, si praticava l'isterectomia, si iniettava nell'utero un liquido, a detta dei medici sterilizzante - pratiche queste che dovevano servire a sterilizzare le razze inferiori. La sperimentazione disponeva di un numero inesorabile di "cavie" ebree, costrette a sottoporsi a dolorosi interventi chirurgici, prive di anestesia, o con anestesia insufficiente.
Ad Auschwitz
uno dei più grandi "esperti" del campo, il professor Clauberg
inventò un nuovo metodo per sterilizzare le donne; egli praticava
una spruzzatina di un liquido sterilizzante, forse a base di nitrato
d'argento commisto ad una sostanza radiologica di contrasto. A tutte
le donne, infatti, dopo la sterilizzazione. veniva praticata una
radiografia. Questa "spruzzatina" veniva operata direttamente sul
collo dell'utero, nel corso di una visita ginecologica
apparentemente innocua. Questo metodo provocava dolori intensissimi
ed emorragie diffuse ai genitali. Le detenute gridavano
disperatamente. Una volta subito l’intervento sterilizzante,
le donne, sotto la minaccia di venire uccise all'istante, dovevano
camminare diritte e uscire cantando dalla baracca. Avevano l'ordine
categorico di non parlare di quanto accaduto con le compagne. Molte
morivano e venivano subito cremate.
Esperimenti anatomici A Ravensbrück, con l'aiuto di controlli radiografici, si effettuavano esperimenti mediante: frattura delle ossa - i medici SS spezzavano con uno o più colpi di martello le ossa delle gambe della paziente -, prelievo di tessuto osseo sano o precedentemente infettato, innesto di tessuto sano o infettato, sia nelle mammelle che nelle gambe, per studiare gli effetti dei sulfamidici, utilizzati nelle terapie antibatteriche. Per quanto riguarda le ricerche sulle fratture ossee,. Riunivano poi i frammenti ossei all'osso cui appartenevano. Per quanto
riguarda invece i prelievi di tessuto osseo, questi venivano
eseguiti secondo il metodo abituale, solo che non di rado venivano
asportati per esempio interi frammenti ossei dal perone. Ben presto
le donne si resero conto che quelle che andavano al revier
(infermeria) venivano sottoposte a strane operazioni, e che
era difficile tornare alla baracca vive o totalmente sane. Le donne
selezionate per gli esperimenti venivano ingannate dicendo loro che
non andavano solamente a lavorare in una fabbrica. Quelle che si
ribellavano venivano picchiate o direttamente gassate.
L’organizzazione delle cavie La categoria
speciale di prigioniere su cui venivano compiute operazioni
chirurgiche ed esperimenti cominciavano dal n. 5.000.
Venivano designate nel lager col nome polacco di Krouki, che
significava cavie umane. La loro baracca era designata con la sigla
NN (Nacht und Nebel, ossia notte e nebbia). Questa sigla
segreta compare nei documenti della Gestapo e delle SS accanto al
nome di persone che dovevano essere eliminate, e sulla cui sorte
nessuno doveva sapere nulla. Dovevano scomparire nella notte e
nella nebbia. Ed ecco l'alimentazione: al mattino c'erano solo
due bidoni di caffè per 800 persone, cosicché pochissimi riuscivano
a prenderne. A mezzogiorno v'era una specie d'appello per poter
distribuire la zuppa. Il rancio arrivava alle ore più disparate,
dalle nove del mattino alle cinque del pomeriggio, quindi non
sapevano mai a che ora sarebbe avvenuta la distribuzione. Ogni
cinque persone veniva data una gamella con un litro di minestra.
Nessuno aveva un cucchiaio e così dovevano bere nella stessa
ciotola, a sorsi. La zuppa era talmente disgustosa che i primi
giorni molte donne non mangiarono. La
condizione dei neonati Nonostante ciò, diverse testimonianze attestano che molti neonati furono uccisi alla nascita a Ravensbrück. Le donne tedesche non ebree andavano a partorire nelle maternità all'esterno del campo. Negli altri casi, o i medici SS procedevano a degli aborti, anche in casi di gravidanze avanzate, senza la minima norma igienica, oppure i neonati venivano strangolati o annegati appena nati. A Ravensbrück ci furono dei parti clandestini nei blocchi fino all'autunno del 1944, ma i bambini non avevano alcuna possibilità di sopravvivere. A partire
dal settembre '44 Marie Josè de Lauwe, deportata francese, si occupò
dei neonati, che dovevano essere mantenuti in vita. La
Kinderzimmer, la camera dei
bambini, era
una piccola stanza situata in un blocco per le ammalate. I
bambini erano
molto sporchi, perché potevano essere cambiati raramente. Assumevano
in fretta l'aspetto di vecchi. Ogni giorno il loro numero
aumentava, perché numerosi convogli di donne e
bambini
arrivavano per l'evacuazione di
campi e
prigioni a causa dell'avanzata degli Alleati. In mezzo a loro si
trovavano le donne incinte che partorivano in una stanzetta del
revier in condizioni disumane. I neonati venivano subito portati
alla Kinderzimmer, vestiti con un camicino, un pannolino ed
avvolti in uno scialle. Molte donne organizzavano la solidarietà nel
campo, raccogliendo stracci e panni per poter cambiare i neonati.
Solidarietà nei Lager La solidarietà nel campo aiutò a procurare nuove bottigliette da utilizzare come biberon e molte madri che avevano ancora latte dopo la morte dei loro bimbi allattavano altri neonati. Quando le madri morivano, le infermiere adottavano i loro bambini. Le nascite e le morti dei bambini erano annotate in un Geburtenbuch, registro delle nascite. Alla liberazione, in base alla mortalità media e ai posti occupati dai neonati alla Kinderzimmer la dr. Gombart de Lauwe dice di aver stimato più di 800 bambini nati e quasi tutti morti a Ravensbrück. La cifra, presa dal registro delle nascite, è di 509 nomi di madri che hanno partorito al campo dal 19 settembre 1944 al 22 aprile 1945. Ogni bambino riceveva un numero. Il
destino dei neonati A Birkenau,
negli anni '42-'43, le donne incinte venivano ammazzate, mentre, in
seguito, potevano partorire e continuare a lavorare: il bimbo veniva
soppresso con iniezioni di fenolo o soffocato in una tinozza d’acqua
e quindi bruciato in una stufa. Più di una volta le SS
mettevano i
bambini dentro dei sacchi per lanciarli in aria e colpirli con
bastoni o per tirare al bersaglio con le pistole. Chi partoriva
segretamente era costretta a soffocare o avvelenare il proprio
figlio. A questo punto risulta evidente quanto possano essere
differenti le terrificanti esperienze di uomini e donne. La
percentuale di mortalità era circa il 74,8%, ma questa non rende
conto di tutta la realtà, dal momento che 1/4 dei
bambini è
morto a Bergen Belsen, vero campo di sterminio, dove regnava il tifo
e dove furono spedite le bocche inutili, le ammalate, le donne
anziane, le madri e i
bambini.
Dalle testimonianze finora raccolte emerge un importante aspetto
della deportazione, soprattutto femminile, sovente sottovalutato:
quello che potrebbe essere definito "il dramma del ritorno". Le
conseguenze del dramma L’incredulità e
l’indifferenza di chi non ha conosciuto i lager si
evidenziano in una totale mancanza di interesse per la tragica
esperienza della donna; ciò ha condotto molte deportate ad un
graduale isolamento, ad un dannoso ripiegamento su se stesse, mentre
diverse patologie s'impadroniscono e turbano ancora oggi il loro
stato fisico e psichico.
Testimonianze
Documento I: Anni d’infanzia Nel nuovo campo non incontrammo mai il papà. Appena arrivati lo avevano mandato da un'altra parte. Ma del nostro arrivo mi ricordavo a malapena, perché la pillola mi aveva lasciato tutto insonnolito. La mamma e io dormivamo insieme nel letto più in alto, appena sotto il tetto inclinato della baracca…Un giorno, dopo il pranzo, la mamma mi portò nel posto dove stavano i pentoloni del cibo. Erano grossi pentoloni di ferro. C'erano molti bambini lì. La mamma disse che dovevo aiutarli a riportare le pentole in cucina. Le domandai se sarebbe venuta anche lei, ma lei rispose che non si poteva. Dovevo semplicemente afferrare uno dei pentoloni da un lato e aiutare a portarlo; gli altri lo reggevano dall'altra parte. Poi saremmo tornati indietro tutti insieme e lei sarebbe stata lì ad aspettarmi. Io non avevo nessuna voglia di farlo, perché bisognava traversare il recinto e fare tutta quella strada. E lì era pieno di soldati con i fucili. Forse non ci avrebbero più lasciati tornare indietro. Ma la mamma disse che lo dovevo fare, tutti i bambini dovevano a turno dare una mano a riportare i pentoloni e siccome io non lo avevo mai fatto finora, adesso toccava a me aiutare, per una volta. Cominciai a piangere e a dire che davvero non volevo. Ma la mamma mi carezzò la testa e disse che dovevo farlo per amor suo. Altrimenti gli altri si sarebbero arrabbiati con lei, se io non volevo aiutare. Dissi che l'avrei fatto il giorno dopo. Ma non si poteva. Dovevo farlo subito. Il manico era troppo alto per me. I ragazzini più grandi portavano la pentola. Io non dovevo far altro che metterci sopra una mano. Dissi che in questo caso non c'era nessuna necessità che andassi con loro, ma la mamma disse che dovevo dimostrare che facevo del mio meglio. La mamma mi fece un cenno di saluto e rise. Al cancello del recinto
dovemmo aspettare un bel po'. poi aprirono. I soldati sollevavano il
coperchio di ogni pentola e ci guardavano dentro. La nostra non
aveva coperchio così potemmo passare subito. Dovevamo percorrere un
pezzo di strada. Poi si arrivava alla baracca delle cucine. Lì
faceva un caldo terribile. Sulla porta c'era un uomo che aveva
addosso solo un paio di calzoni. Ci mostrò dove dovevamo deporre il
pentolone. Disse anche che dovevamo far subito ben bene la pulizia
delle pentole. Ci fu un gran baccano. I
bambini
facevano rumore con i coperchi. L'uomo domandò se c'erano altri
bambini.
Poi richiuse la porta. Alzò una mano e contò fino a tre.
D'improvviso ci fu un gran silenzio. Tutti i
bambini
si chinarono sull'orlo dei pentoloni. Alcuni non toccavano più per
terra con i piedi. Si vedevano solo le loro schiene curve e le
gambe. Teste e braccia erano scomparse. Io avrei volentieri dato una
mano a pulire, ma non sapevo che cosa fare. E l'uomo aveva molta
premura. Mi misi accanto al nostro pentolone e cercai di guardare
oltre l'orlo. I
bambini
che lo avevano portato se n'erano già andati. Ora stavano
ripulendone un altro. L'uomo mi venne vicino. Aveva la barba nera e
i baffi. Guardò nella pentola e poi guardò me. Aveva visto che io
non avevo aiutato a pulire. Mi domandò se andava bene. Io feci cenno
di sì, ma lui disse che io non arrivavo all'orlo. Mise una pentola
più piccola rovesciata accanto al pentolone. «Mettiti lì sopra».
Guardai oltre l'orlo. Sulla parete interna del pentolone c'erano
ancora molti avanzi gialli di patate. Dopo un po' l'uomo disse che
dovevamo andarcene...Tornammo indietro verso il recinto. I soldati
ci indicavano con il dito teso.
Documento II : Un bambino nei Lager «La sera
la mamma mi domandò che cosa avevo fatto durante il giorno. Le
raccontai che ero stato insieme ai ragazzi più grandi. Mi domandò se
mi prendevano così senz'altro con loro e io le spiegai che ora sì,
mi prendevano con loro, perché avevo superato al prova. Ero stato
all'osservatorio. Lei mi domandò che cos'era, un osservatorio.
Risposi che lo sapeva benissimo, che lì c'erano i cadaveri e che
sapeva anche benissimo che mio padre era stato gettato sopra gli
altri cadaveri e che non aveva neppure un lenzuolo e io avevo detto
ai bambini
che ne aveva sì uno, mentre avevo visto benissimo che non ne aveva.
Mi misi a strillare che lei era matta a lasciare che lo buttassero
così sugli altri cadaveri senza lenzuolo e che non mi aveva neppure
raccontato che era stato portato via dalla baracca dell'infermeria e
che io volevo andare almeno a salutarlo un'ultima volta e che lei
era stata cattiva e che era colpa sua se era lì così nudo sopra i
cadaveri». Documento III: Petr
Fischl batte con fatica sui tasti della sgangherata macchina e
scrive … ... Siamo abituati a
piantarci su lunghe file alle sette del mattino, a mezzogiorno e
alle sette di sera, con la gavetta in pugno, per un po' di acqua
tiepida dal sapore di sale o di caffè o, se va bene, per qualche
patata. Ci siamo abituati a dormire senza letto, a salutare ogni
uniforme scendendo dal marciapiede e risalendo poi sul marciapiede.
Ci siamo abituati agli schiaffi senza motivo, alle botte, alle
impiccagioni. Ci siamo abituati a vedere la gente morire nei propri
escrementi, a veder salire in alto la montagna delle casse da morto,
a vedere i malati giacere nella loro sporcizia e i medici impotenti.
Ci siamo abituati all'arrivo periodico di un migliaio di infelici e
alla corrispondente partenza di un altro migliaio di esseri ancora
più infelici... Breve
biografia di Jona Oberski
Jona Oberski è nato ad Amsterdam nel 1938 e
lavora attualmente in un istituto di fisica nucleare. In questa sua
prima opera, già pubblicata in numerosi paesi, descrive la sua
tragica esperienza di bambino ebreo deportato insieme ai genitori in
un campo di
concentramento. Da questo libro è stato tratto il film di
Roberto Faenza Jona che visse nella balena. Petr Fischl, 14 anni, è stato deportato a Terezin, da Praga, nel 1943, in dicembre. Dietro si è lasciato l'infanzia, la gioiosa ansia di un bambino che si prepara trepidante alla scoperta dell'adolescenza. Le sue dita battono con fatica sui tasti della sgangherata macchina. Scrive di sé e di migliaia di altri bambini che ancora non sanno di essere destinati all'orrore finale di Auschwitz.
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