Nel dicembre del 1943,
Torino, Milano e Genova sono scosse da un’ondata di scioperi operai,
con rivendicazioni che riguardano la diminuzione dei ritmi di lavoro,
gli aumenti salariali contro l’inflazione -cresciuta per l’esorbitante
coniazione di lire da parte dei tedeschi- e le garanzie nell’approvvigionamento
di viveri, reso instabile dalle requisizioni militari e dallo sviluppo
del mercato nero.
L’assoluta priorità data dai tedeschi al mantenimento di
elevati volumi produttivi, necessario per alimentare lo sforzo bellico,
porta a concedere incrementi retributivi tali da triplicare
le retribuzioni. D’altro canto, la propensione tedesca
a mantenere sotto stretto controllo l’industria italiana è
evidenziata anche dal veto opposto alla “carta di Verona”,
elaborata dalla Rsi nel febbraio del 1944, che intende indirizzare la
politica economica verso la socializzazione, mediante la statalizzazione
delle industrie d’interesse nazionale e la gestione congiunta
delle imprese e degli utili da parte d’imprenditori e lavoratori.
I partigiani
agiscono per rendere il più possibile difficoltoso il controllo
nazifascista del territorio: le bande sabotano le linee ferroviarie
e le centrali elettriche, mentre i Gap compiono temerari attentati nelle
città.
Spesso, i nazifascisti rispondono
a queste azioni con rastrellamenti e rappresaglie contro la
popolazione civile, accusata di appoggiare i partigiani. I
rastrellamenti colpiscono soprattutto il Piemonte, l’Emilia (a
Reggio, il 28 dicembre, sono fucilati i sette fratelli Cervi)
ed il Veneto. Le rappresaglie provocano l’assassinio di
civili: 121 a Pietrapanseri in Abruzzo (21 novembre), 8 detenuti
politici a Milano (20 dicembre), 59 a Boves (nuovamente incendiato il
2 gennaio 1944).