Le formazioni partigiane
L’esperienza maturata nell’inverno del 1943, quando le bande che hanno accettato lo scontro frontale con i tedeschi sono state annientate, ha evidenziato quanto sia inadeguata l’impostazione da “esercito regolare” propria delle formazioni autonome. Il modello militare unico della Resistenza diviene allora quello della guerriglia, una forma organizzativa che nasce sul campo, plasmata sui caratteri di frammentazione, mobilità e ridotta dimensione delle bande. Le formazioni, composte di 250-300 uomini ognuna, sono inquadrate all’interno delle divisioni e si suddividono in distaccamenti e squadre. Tra gli autonomi, ogni formazione ha al proprio vertice un comandante che, secondo il tradizionale sistema militare, è responsabile tanto dell’ordine interno quanto dei rapporti con l’esterno. Diversamente, le formazioni d’orientamento comunista, giellista e socialista affiancano al comandante, che si occupa della conduzione propriamente militare, il commissario politico, che cura i rapporti con la popolazione civile e la formazione ideologica dei partigiani; inoltre, in esse l’autorità è concepita alla luce del possesso di qualità morali, etiche ed organizzative riconosciute, oltre che soggetta a controllo e a revoca dal basso, secondo un modello di democrazia diretta. Chi s’aggrega ad una formazione s’inserisce in una collettività. Abbandona le proprie generalità civili per assumere un “nome di battaglia”; si dota di un segno distintivo esteriore come il fazzoletto annodato al collo (di colore rosso per i garibaldini, azzurro per gli autonomi…); costruisce relazioni basate sull’affetto e sulla fiducia personale - tanto più necessarie in un ambiente in cui il ribellismo genera spesso tensioni interpersonali -; matura la propria coscienza, tra esperienza e discussione.
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