La politica economica del fascismo
Dal 1923, la linea liberista del governo Mussolini permette all’Italia di agganciare la ripresa economica, manifestatasi fin dall’anno precedente negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Germania. I provvedimenti assunti rilanciano gli investimenti, da un lato risanando il bilancio statale e dall’altro favorendo le aziende e i capitali privati. Sul primo dei due versanti, la riduzione delle spese militari e la compressione di quelle sociali vanno di pari passo con l’aumento delle imposte indirette e della tassazione diretta dei salari; sul secondo, la rimozione dei vincoli alla libertà d’impresa e l’eliminazione delle imposte sui “superprofitti” di guerra, sui capitali bancari ed industriali e sulle fusioni delle società si accompagnano alla defiscalizzazione delle successioni, all’abolizione della nominatività dei titoli e alla liberalizzazione degli affitti. Per effetto di questa politica, nel triennio 1922-1925 il prodotto interno lordo cresce di quasi il 4 per cento l’anno, gli investimenti lievitano di oltre il 20 per cento e la produzione industriale sale del 53,5 per cento, ad un ritmo inferiore a quello del solo Giappone; inoltre, la competitività migliora per effetto della riduzione dei salari e della crescita della produttività, consentendo un incremento delle esportazioni pari al 15 per cento annuo. Intorno al 1925, però, il breve ciclo espansivo internazionale s’interrompe. Lo squilibrio della bilancia commerciale e l’inflazione mettono in difficoltà la lira, che a metà del 1926 diventa bersaglio della speculazione. |
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