L’economia è poi messa
in ulteriore difficoltà dall’enorme sforzo finanziario
compiuto per sostenere le spese belliche
(si calcola che le spese militari abbiano assorbito una quota del
Prodotto interno lordo, che va da un minimo del 18,3 per cento nel
1915 ad un massimo del 33,1 per cento nel 1918): per rimediare all’insufficienza
del gettito fiscale, infatti, lo Stato ha dovuto contrarre debiti
con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, che gravano fortemente sul
bilancio pubblico [nel 1919, il debito pubblico è pari al 136
per cento del Pil), e procedere ad un’emissione straordinaria
di valuta, che eccita l’inflazione (durante la guerra, l’indice
generale dei prezzi dei generi di prima necessità è
addirittura triplicato).
L’agricoltura, principale
settore dell’economia, sconta una caduta della produzione [la
contrazione del raccolto di grano è del 34 per cento, quella
della produzione di foraggio del 30 per cento] che è causata
dalla chiamata alle armi di milioni di contadini e dalle requisizioni
di bestiame operate per nutrire le truppe. Questa contrazione costringe
ad un raddoppio dell’importazione di grano e di carne che, da
un lato, compromette la bilancia commerciale del Paese e, dall’altro,
accresce il prezzo dei principali generi alimentari.
L’industria, che durante
la guerra ha conosciuto un convulso processo d’espansione e
concentrazione, soffre la fine delle commesse militari. La riconversione
verso beni di consumo civile è ostacolata dall’impossibilità
del mercato interno di esprimere una domanda adeguata ed i licenziamenti
decimano gli operai, soprattutto le donne e i giovanissimi privi di
qualifica professionale, ma anche gli impiegati [tra il 1919 e l’estate
del 1920, le sole aziende del settore metalmeccanico operano più
di 13.000 licenziamenti].