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La crisi economica

Alla fine della Prima guerra mondiale (1915-1918), l’Italia affronta la peggior crisi della sua pur breve storia.
Il Paese, che conta circa 37 milioni d’abitanti, ha perso sui campi di battaglia più di un milione e 200.000 uomini [gli elenchi dei mutilati e degli invalidi testimoniano 750.000 morti e 463.000 feriti] nel pieno dell’età lavorativa. Questo crollo demografico colpisce duramente un’economia che è già debole per la mancanza di materie prime e fragile per l’eccessiva velocità dello sviluppo, poiché l’impoverisce di quella forza lavoro che costituisce la sua principale risorsa.


L’economia è poi messa in ulteriore difficoltà dall’enorme sforzo finanziario compiuto per sostenere le spese belliche (si calcola che le spese militari abbiano assorbito una quota del Prodotto interno lordo, che va da un minimo del 18,3 per cento nel 1915 ad un massimo del 33,1 per cento nel 1918): per rimediare all’insufficienza del gettito fiscale, infatti, lo Stato ha dovuto contrarre debiti con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, che gravano fortemente sul bilancio pubblico [nel 1919, il debito pubblico è pari al 136 per cento del Pil), e procedere ad un’emissione straordinaria di valuta, che eccita l’inflazione (durante la guerra, l’indice generale dei prezzi dei generi di prima necessità è addirittura triplicato).

L’agricoltura, principale settore dell’economia, sconta una caduta della produzione [la contrazione del raccolto di grano è del 34 per cento, quella della produzione di foraggio del 30 per cento] che è causata dalla chiamata alle armi di milioni di contadini e dalle requisizioni di bestiame operate per nutrire le truppe. Questa contrazione costringe ad un raddoppio dell’importazione di grano e di carne che, da un lato, compromette la bilancia commerciale del Paese e, dall’altro, accresce il prezzo dei principali generi alimentari.

L’industria, che durante la guerra ha conosciuto un convulso processo d’espansione e concentrazione, soffre la fine delle commesse militari. La riconversione verso beni di consumo civile è ostacolata dall’impossibilità del mercato interno di esprimere una domanda adeguata ed i licenziamenti decimano gli operai, soprattutto le donne e i giovanissimi privi di qualifica professionale, ma anche gli impiegati [tra il 1919 e l’estate del 1920, le sole aziende del settore metalmeccanico operano più di 13.000 licenziamenti].