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L’offensiva del 26 giugno

Anche se ancora impegnate nelle operazioni di riorganizzazione e distribuzione sul territorio -fenomeno che peraltro caratterizzò l’intero movimento resistenziale-, le formazioni furono chiamate ad appoggiare la protesta dei lavoratori dell’industria. Voluto dal Cln Alta Italia, lo sciopero generale del 1° marzo fu concepito come sfida aperta alle forze nazifasciste e, per questo, richiese il contributo delle forze partigiane nelle valli, le quali ebbero il compito di bloccare le vie di comunicazione ed impedire in questo modo il trasferimento dei pendolari in pianura.Le repressione che seguì e che investì tutte le zone occupate dalle formazioni partigiane -la zona del colle del Lys fu sottoposta a un rastrellamento già verso l’8 marzo (i rumori della battaglia si sentirono fino ad Alpignano) e poi ancora il 26 aprile e nei primi giorni di maggio, quando una colonna di nazifascisti partiti da Viù raggiunse Col san Giovanni, Bertesseno, Niquidetto, spingendosi poi fino alla frazione Favella di Rubiana e catturando venti partigiani- non riuscì a cancellare l’impressione di pieno successo dell’azione, che per qualche giorno aveva bloccato la produzione industriale.
A dare ulteriore impulso alla lotta contro i nazifascisti contribuirono le notizie diffuse dalla radio sulla situazione generale della guerra: la liberazione di Roma (4 giugno), lo sbarco alleato in Normandia (6 giugno), il proclama alleato che incitava gli italiani alla rivolta (7 giugno), la costituzione del Corpo volontari della Libertà (9 giugno). L’impressione della liberazione imminente e il successo di un ulteriore sciopero dei lavoratori torinesi per impedire il trasferimento dei macchinari in Germania (19 giugno) crearono un clima quasi euforico, nel quale fu concepito l’attacco manovrato al fondovalle.
Il piano, messo a punto dai comandanti delle varie formazioni, prevedeva il coinvolgimento di tutte le formazioni partigiane presenti tra la val Chisone e quella di Lanzo. I garibaldini della 17a, in particolare, ebbero il compito di puntare su Rivoli per occupare il presidio del Castello, dov’erano insediati i comandi della Scuola allievi ufficiali della Guardia nazionale repubblicana e dell’Artillerie–Regiment della Waffen–Grenadier–Brigade der Ss, e di controllare la strada statale e la linea ferroviaria, in modo da impedire alle forze nazifasciste di raggiungere la valle. Bloccate però in una battaglia di posizione, le squadre della “Felice Cima” si sganciarono nella mattinata del 26 giugno all’arrivo degli autoblindo della “Monte Rosa” da Torino e tornarono alle loro basi in montagna, senza sabotare le vie di comunicazione e senza avvertire della ritirata le altre formazioni, che infatti si trovarono scoperte e furono aggredite dalle forze tedesche.Il fallimento dell’attacco al fondovalle fu determinato da diversi fattori, tra cui la poca chiarezza sugli obiettivi, la scarsa organizzazione dei collegamenti tra le formazioni e l’equivoco tra un’azione manovrata e una serie di iniziative indipendenti e contemporanee.

L la “Felice Cima”, per esempio, avrebbe dovuto presidiare le vie di comunicazione, piuttosto che impegnarsi contro il Castello di Rivoli; d’altra parte, un piano che si fondava su un solo sbarramento difensivo verso Torino e non prevedeva manovre di ripiegamento concordate in precedenza non era certo adeguato ad un’azione manovrata di ampio respiro. Errori dovuti principalmente all’ inesperienza, ma che diedero l’occasione per una violenta polemica con i partigiani della val Sangone, i quali più di altri avevano subito gli effetti del contrattacco nazifascista. Di fatto, le formazioni tornarono ad agire indipendentemente e nessun’altra azione collettiva fu organizzata prima dell’insurrezione del 25 aprile 1945.