Intervista rilasciata su audiocassetta dalla Sig.ra Lucia Baudano il 24 giugno 2003 presso la propria abitazione in  Rivoli.

Intervistatrice: Prof.ssa Marina Bellò. Addetto alla registrazione: Prof. Alberto Farina.

 

Mi chiamo Lucia Baudano; sono nata a Rivoli il 20 maggio del 1927. Sono sempre vissuta a Rivoli.

 

Sì!

 

Ricordo purtroppo molte cose per il lavoro che facevo a Rivoli con papà.

Papà era proprietario di una impresa funebre, si può dire l’unica impresa funebre a Rivoli. Era in Via Capello 11, quasi all’angolo con Piazza San Rocco. Mio fratello era più piccolo, quindi per nostra fortuna studiava e non aveva ancora l’età per poter partecipare con noi a questi… non so se chiamarli eventi.

Un giorno è venuta una signora, di cui non ricordo il cognome, da Collegno. Si è inginocchiata davanti a papà chiedendogli di salvare il figlio. Subito papà non ha capito che cosa volesse perché non era graduato, non era stato né da una parte né dall’altra. Faceva parte del Comitato di Liberazione di Rivoli con il dottore Rossano Mario, l’ingegnere Vecco Giorgio, il signor Maritano Matteo, che sono defunti, e l’ingegnere Novelli. Quindi papà aveva anche la possibilità di usare la rivoltella, per la quale aveva un regolare permesso dalla Questura, e poteva uscire di sera per la città se se la sentiva.

Purtroppo eravamo molto conosciuti, quindi si aveva gli occhi addosso da parte di chi la pensava in modo diverso dal nostro e quando papà usciva la sera avevamo sempre tanta paura.

Ad ogni modo, tornando al discorso di prima, papà ci ha pensato un po’ e poi ha detto: “Signora, io non saprei come aiutarla perché sono attrezzato per dei funerali, non ho ambulanze, non ho nulla per tentare di salvare una persona viva”. E la signora ha spiegato che il figlio era stata mitragliato sette giorni prima ed era a Val della Torre presso il dottor Rossi, che però non poteva fare nulla.

Allora mio padre ha avuto un’idea e ha detto a questa signora: “Potrei tentare di andare con un furgone funebre, però come metterlo nel furgone? Come fare il viaggio, dovendo passare da Alpignano, alla ferrovia per forza di cose, dove ci sono i tedeschi che mi fermano ogni volta che vado, anche se per un funerale? E poi avrei bisogno anche della collaborazione di una donna, eventualmente per dire che è una parente”. Lei si è offerta, però papà ha detto: “No, signora, troppa responsabilità da parte mia; metto già in pericolo la mia vita, non posso accettare di avere anche lei. Innanzitutto perché non so come riesce a contenersi di fronte a suo figlio e poi perché non so come mettere suo figlio nel furgone”. Ma poi ha detto alla signora: “Tenterò questa strada, però non le prometto nulla”.

Quando la signora se n’è andata ho detto subito: “No, papà, rischi la vita, inoltre non è giusto neanche per noi che abbiamo solo te”.

Lui mi ha chiesto se avevo qualcosa da proporgli perché sapeva che quando c’erano i bombardamenti andavo all’ospedale a portare i feriti nella cantina. C’erano dei militari che aiutavano e tutti insieme, un uomo e una donna, si portavano sotto i malati più gravi, quelli che non potevano alzarsi.

E siccome i militari non potevano aiutarci perché non potevano uscire dall’ospedale e le ragazze che conoscevamo erano giovani come me allora ho detto:  “Vengo io !”. 

In un primo tempo lui si è opposto strenuamente, poi vedendo che ero decisa a non lasciarlo andare da solo ha preso una bara e ha tolto una fila sulla testata di modo che ci fosse un’entrata per l’aria. Poi ha deciso di prendere  l’Ardita, simile a un furgone, con i vetri soltanto davanti, e quindi non si  poteva vedere quello che c’era dentro.

Quando ho detto: “Ma guarda che non si respira molto bene” lui mi ha risposto: “ Lo so, ma non  mi viene in mente niente di meglio”.

E così siamo partiti. Già all’entrata di Alpignano ci hanno fermati, però abbiamo detto che andavamo su e che quindi i documenti non li avevamo. Allora il decreto per trasportare una salma da un paese all’altro veniva rilasciato dal Prefetto dietro presentazione del certificato di morte e della domanda dell’impresa. Al momento del rilascio si doveva pagare una tassa all’Ufficio del Registro che mi sembra fosse di 510 lire.

Avevamo dei decreti in bianco perché dovevamo portarli noi stampati col nome dell’impresa e allora ne abbiamo preso uno, l’abbiamo compilato e dato che non era il Prefetto in persona a firmare ma c’era un segretario abbiamo messo uno scarabocchio al posto della firma, senza timbro. E siamo partiti così.

Quando siamo arrivati dal dottor Rossi questi ci ha detto che erano passati troppi giorni e che il ferito non avrebbe resistito al viaggio perché aveva gli intestini perforati. Però ormai bisognava tentare. E lì si è presentato l’amico Cesare Mondon che ha voluto provare la bara nel carro e quando è uscito dalla bara ha detto: “Non è che si stia bene e si respira poco” ma noi abbiamo detto che era tutto quello che avevamo potuto trovare. Lo sapevamo anche noi che era  durissimo per chi stava male.

Mio padre ha spiegato che quando avesse battuto dei colpi sarebbe stato il segnale che si stava avvicinando al passaggio dei tedeschi e quindi il ferito doveva stringere i denti e non lasciarsi sfuggire nessun grido, altrimenti nessuno di noi si sarebbe salvato. Il poveretto ce l’ ha fatta.

Il dottor Rossano, che avevamo già avvertito, non poteva portarlo nell’ospedale perché c’erano dei tedeschi feriti, però aveva chiamato il professor Anglesio e aveva preparato la sala operatoria. Questi ha tentato l’operazione, ma è stato impossibile salvarlo.

Il secondo ferito che abbiamo portato è stato Mondon. Era venuta la mamma ma mio padre non aveva la benzina perché la davano misurata, dovevamo segnare i chilometri. Ce l’ ha data un maresciallo di marina che conoscevamo e l’abbiamo pagata noi, perché allora non si poteva chiedere gratis.

E così siamo partiti di nuovo facendo lo stesso viaggio, però questa volta eravamo un po’ più tranquilli perché il cavaliere Donna, che ricordo con tanto amore, si era preso la responsabilità di firmare e timbrare il decreto prefettizio. E ce ne aveva dati altri due in bianco, se avessimo avuto ancora bisogno.

Logicamente alla Prefettura non arrivava niente e in comune non si faceva l’atto di morte, perché altrimenti noi avremmo dovuto denunciare la morte di una persona che invece era viva; nessuno sapeva niente.

Siamo andati nello stesso posto, perché Mondon non è stato ferito a Val della Torre ma a Rubiana. Era stato mitragliato con i due amici Rolle e Bonaudo che sono morti. Mondon era stato solo ferito e quando li hanno presi a calci è riuscito a non urlare.

Gli amici di Val della Torre, non vedendoli più tornare, erano scesi a Rubiana  attraversando la montagna e avevano trovato Rolle e Bonaudo morti, ma avevano capito che Mondon era ancora vivo. Allora, utilizzando una scala di legno come barella, lo avevano trasportato in montagna a Val della Torre, dallo stesso dottore.

Mondon era ferito alla testa, alla gamba ed al bacino. Quando l’ ho caricato  in macchina aveva ripreso conoscenza e mi ha detto: “Sono stato sfortunato. Sono io che ho provato la bara e questa cosa non mi ha portato fortuna”. Io, che non l’avevo riconosciuto gli ho detto: “Perché dici così, aspetta a dirlo”.

Abbiamo fatto le stesse raccomandazioni e siamo arrivati all’ospedale di Rivoli dove il dottor Rossano aveva preparato una camera sotto l’ospedale. Quella stanza sembrava una stalla, c’era della paglia, un po’ di tutto. Il dottore ha fatto radunare la paglia, ha preparato due lettini, perché non poteva portare il ferito in corsia, e ha fatto fare un campanello d’allarme dicendo a un ragazzo che se lo avesse sentito sarebbe dovuto scappare. Il professor Anglesio lo ha operato dove poteva.

Mondon è vivo e ancora oggi ha una pallottola in testa, perché non può essere operato, e cammina zoppicando, anche se è andato in più ospedali per migliorare la situazione.

Intanto noi eravamo già stati segnalati. Servivamo il manicomio di Collegno e io andavo lì a prendere le pratiche per i trasporti che facevamo realmente. Era una pena perché avevo il permesso di attraversare l’ospedale e vedevo i malati chiusi come in delle gabbie. Erano scappati dai paesi intorno alla ricerca di cibo, si erano ammalati ed erano finiti lì in manicomio e morivano di fame. C’erano soltanto gli uomini, le donne erano a Torino, in Via Giulia.

Io dovevo attraversare tutto il manicomio perché la camera mortuaria era in fondo e quindi vedevo questi ragazzi di mezz’età, perché così sembravano a me che allora avevo solo diciassette anni, che mi chiedevano per pietà un pezzo di pane, ma io non potevo darglielo perché non l’avevo.

E quindi la mia giovinezza è stata triste, un po’ per il lavoro e un po’ perché mi sono buttata in queste cose con papà.

Il terzo ferito che abbiamo trasportato non so se è morto o se non abita più a Rivoli. Lo chiamavano con uno stranome, cioè un soprannome, e quindi lo conoscevamo con quel nome. Era stato ferito ad una gamba.

 

Non mi ricordo, ma Abe lo sa. Il fratello, che era contadino, abitava in una cascina in Via Rombò, dove adesso hanno costruito quelle grosse palazzine. Allora, mentre tornavamo indietro con il ferito, sempre per la stessa strada, abbiamo incontrato una persona della quale non ho mai fatto e non farò mai il nome che ci ha detto: “Non voglio essere nominato assolutamente però sappiate che vi stanno aspettando all’ospedale”. Allora papà si è fermato un momento con la macchina e mi ha detto: “Pazienza noi due, ma andiamo a mettere nei guai il dottor Mario che fa tanto, perché lo beccano subito”.

 

Sì. E così siamo andati a casa. Papà ha avuto il tempo di chiudere bene il portone, l’ ha bloccato, e ha detto: “Prima di entrare ci impiegheranno cinque minuti. Facciamo andar via mamma, che vada alla stazione a fermare Antonio che arriva da scuola“. Mio fratello andava a Torino dove frequentava le superiori. 

E poi mi ha mandato ad avvisare il fratello del ferito.  Mi viene in mente adesso che il suo stranome era bealera, tutta la famiglia lo chiamava bealera.

Sono andata di corsa, allora ero giovane e correvo, in Via Rombò, che da Via Capello non era poi tanto lontana, e l’ ho trovato  che trafficava con un carro con la paglia e quando gli ho parlato del fratello lui mi ha detto: “Mio fratello? È il più piccolo, facciano quello che vogliono i tedeschi, vengo io a prenderlo”. Ha attaccato il cavallo al carro ed è venuto fino da noi. Ha avuto il tempo di caricarlo sul carro sotto la paglia e mi ha detto:“Vada come vuole, infezione o non infezione” e lo ha portato via. In seguito è stato portato all’ospedale ed è stato salvato.

Mio papà e il dottor Rossano sono stati denunciati. Il dottor lo hanno portato alle Nuove e non ha mai parlato nonostante gli interrogatori.

Mio papà purtroppo lo hanno portato a Torino, in via Asti, in collina, dove martirizzavano le persone.

Ero disperata e allora sono andata all’ Unione Industriali dove conoscevo il vicepresidente. Quando gli ho raccontato ciò che era successo mi ha detto: “Conosco uno di Milano, che è fascista ma è una persona che se può fare qualche cosa lo fa e accetta le idee degli altri. Ha una libreria, si chiama Oberdan Zucchi; so che viene in divisa da fascista in Via Asti, ma se può non martirizza, interroga, deve fare anche lui qualche cosa per non essere accusato. Se riesco a trovarlo a Milano gli dico di venire qui a Torino”.

La sera tardi mi ha telefonato dicendo di aver parlato con Oberdan, il quale sarebbe venuto due giorni dopo, e di averlo pregato di interrogare lui mio padre. Il comandante Loffiego di via Asti era tremendo e aveva dato ordini che voleva interrogare lui i prigionieri. Oberdan m’aveva fatto dire di trovarmi alle due a Torino, in Piazza San Carlo, di aspettare mio padre lì e  di non andare in via Asti, perché, se tutto andava come doveva andare, alle due sarebbe dovuto uscire.

Quel giorno i partigiani hanno tentato di entrare in via Asti per liberare i prigionieri. Non ci sono riusciti ma hanno pugnalato Loffiego e lo hanno ucciso. Allora nessuno sapeva più niente, nessuno sapeva dire cosa stesse succedendo là dentro. E mio papà non ha mai voluto dirmi che cosa ha passato, neanche prima di morire. Allora io mi sono trovata alle due in piazza San Carlo e alle quattro mio padre non c’era ancora e non sapevo se dovevo tornare indietro, però ogni momento mi dava l’impressione di vederlo spuntare e dicevo a me stessa: “E se vado via e poi lui arriva e non devo lasciarlo venire a casa, cosa faccio ?”

Così ho aspettato finché a un certo punto l’ ho visto arrivare, non camminava molto bene, gli sono andata incontro e mi ha detto “ E’ riuscito a passarmi una persona  che dice che tu sai chi è. Ma come hai fatto?”

Gli ho spiegato quello che avevo fatto, gli ho dato dei soldi che avevo portato e gli ho detto: “Papà, prendi un treno, dimmi solo che treno prendi e poi facci sapere dove sei. Per ora mi hanno detto che non devi assolutamente venire a casa”. E così è stato.

Alla sera tardi mi sono vista  arrivare papà che mi ha detto: “Non posso lasciarti in queste condizioni, Lucia, facciano quel che vogliono. E poi è il nostro lavoro, non puoi dire non vado a prendere le salme”.

Però non poteva andare con il furgone e allora ha chiesto al suo amico Michele Goitre di prestargli il camion su cui caricava i pellami. E siccome il camion andava a carbone e mio padre non sapeva bene come guidarlo gli ha chiesto di dargli anche l’autista, tanto ormai non c’era più pericolo perché andava solo a prendere le salme. Sono salite sul camion anche la signora Rolle e la signora Bonaudo, le mamme di questi ragazzi; i papà no, perché avevano paura che li prendessero e si sono trovati al cimitero di Rivoli.

Io non sono andata perché pensavo non ci fossero pericoli e ho deciso di aspettare mio padre al cimitero. E lì, non vedendolo arrivare cominciavo a preoccuparmi quando un bimbo di nove o dieci anni mi è venuto vicino, mi ha tirato per il vestito, mi ha fatto segno di seguirlo e poi mi ha detto: “Guardi che li hanno fermati, hanno riaperto le bare”. Era il fratellino di Rolle che era andato su in bicicletta e aveva visto tutta la scena. Era arrivato il comandante dei tedeschi che aveva fatto scaricare e riaprire le bare. Cercava il terzo. E allora ha preso papà perché gli dicesse dove fosse e quando lui ha detto di non saperne niente gli ha preso i documenti, non lo ha fatto più salire sul camion e ha aggiunto che se non avesse detto la verità lo avrebbero fucilato entro sera.

La signora Rolle, che aveva un carattere forte, si è ribellata dicendo che mio padre faceva soltanto il suo lavoro ma poi aveva dovuto lasciarlo col cuore in gola. 

A quel punto mi sono chiesta cosa potevo fare e ho pensato di andare al comando tedesco che si trovava in quella che oggi è via Fratelli Piol, all’angolo con via Arnaud. Il comandante tedesco si chiamava Daghe, e chi gli traduceva dall’italiano era un austriaco a cui hanno dato una medaglia ed una pensione perché è rimasto qui in Italia. Arrivata dal comandante piangevo come una disperata e l’austriaco stentava a capire quello che dicevo e quindi a tradurre. Il comandante a un certo punto ha detto al traduttore: “Ma io questa ragazza l’ ho già vista”.

E allora gli ho detto: “Ma noi siamo un’impresa funebre, lavoriamo per quello, siamo andati a prendere le salme, che colpa ne abbiamo”.

Il comandante un po’ svogliato ha alzato il microfono del telefono da campo e ha chiamato il comandante di Rubiana e gli ha detto: “Senti, ho qui una ragazza che piange perché tu vuoi uccidere suo padre. Lascialo andare e poi me ne occupo io”.

L’altro gli ha risposto: ”No, è sotto il mio territorio ed io non ti rilascio niente”. Allora io ho detto: “Non vado via di qui se non salvate mio papà, non vado via”.

All’ austriaco è venuto in mente dove mi aveva visto: a casa del signor Ghisio e ha detto al comandante che anche lui mi aveva visto lì.

Ma io di questo non avevo capito nulla, continuavo a piangere. E poi mi ha chiesto:“Ma lei è quella che ha messo nella bara la signora Kappa?” e quando ho risposto: “Sì! Abitava in Piazza Municipio Vecchio, ma era sposata con un italiano, il signor Ghisio”, il traduttore ha spiegato al comandante come avevo trattato la salma, come l’avevo pettinata e che avevo fatto il mio lavoro nel miglior modo possibile pur essendo la defunta una tedesca. Avevo messo anche un pezzo di tela che voleva essere un lenzuolo. Avevamo solo trucioli di legno, non avevamo né cotonine né altro in tempo di guerra, e mettevamo quei trucioli. Allora lui mi ha fatto chiedere perché l’avessi fatto. “Perché è il mio lavoro – dico - e perché qualsiasi persona quando è morta per me è buona, vado anche quando uccidono i fascisti; faccio il mio lavoro con uno spirito diverso da quello che sta regnando in questo periodo”.

Lui ha pensato un po’, poi ha  alzato il telefono di brutto, ha chiamato Rubiana e ha chiesto una macchina che andasse a prendere papà.

E così lo ha salvato, proprio lui, il comandante tedesco.

Allora non l’ ho più lasciato andare quando fucilavano alla stazione o impiccavano in piazza.

Mi è rimasto impresso di quando ho visto una donna impiccare quattordici prigionieri. Mi obbligavano a star lì perché portavo le bare; non mandavo più papà, facevo venire l’autista, ma poi ho mandato via anche lui, perché avevo troppa paura. Hanno messo il camion con i prigionieri sotto l’albero che c’era in piazza, la donna è salita su, ha tirato la corda e li ha impiccati. L’ultimo è stato un ragazzo giovane, con un’espressione che ti faceva venire in mente i racconti del libro Cuore. Ha sempre chiamato forte la mamma. Ad un certo punto la donna gli ha messo la corda al collo e ha tirato, ma la corda è scivolata. Tutti abbiamo urlato perché voleva dire che era salvo, ma gli ha rimesso la corda e l’ ha tirato su dicendo: “Si fa quello che voglio”. Non dimenticherò mai  quella scena.

 

Era italiana, della Decima MAS.

Ci hanno potato via il furgone e papà poi ha fatto domanda per danni di guerra, perché per noi è stato un brutto colpo perdere due macchine. Io desideravo studiare e la scuola di ragioneria l’ ho fatta un po’ così, grazie alle suore che mi aiutavano, perché c’era già mio fratello che studiava e non c’era la possibilità di farci studiare tutti e due. E poi andavo in bicicletta a Pinerolo a dare gli esami, perché papà non voleva che andassi a Torino.

Ritornando alla vicenda, il dottor Rossano aiutava come poteva i feriti, quelli meno gravi. Andava da Rivoli a Villarbasse, attraverso la salita che fa quelle esse che porta a Reano, dopo la cascina Simonetta, dove furono uccisi tre banditi, gli ultimi ad essere impiccati a Rivoli.

Io portavo i feriti meno gravi nei casot, quelle casette nelle vigne dove gli agricoltori mettono gli strumenti, e il dottore andava lì a curarli, con i medicinali che prendeva in ospedale e che gli davano altri medici, come per esempio il dottor Nebiolo. In seguito, siccome era una persona troppo in vista, portavo io i medicinali.

Avevo collegamenti con la Valle di Coazze dove c’era il marito di una mia cugina; era ingegnere e aveva lavorato in Siam in ferrovia. Conosceva bene l’inglese e allora i capi come Falzone e altri generali si ritrovavano a casa sua per captare i comandi trasmessi da Radio Londra, perché indicavano i posti dove potevano esserci più pericoli o dove si poteva andare per soccorre chi magari era caduto con l’aereo. Anche il parroco di quel paesetto aiutava molto. Il cavaliere De Matteis, che aveva una fabbrica di pizzi, aveva fatto fare cinquantadue paia di scarponi nuovi ed io e sua figlia li abbiamo portati su un po’ alla volta. Andavamo con la  bicicletta perché non c’era altro mezzo e prima di salire alla case alte dove una volta facevano il carbone e dove erano nascosti i ragazzi, per sicurezza una delle due attraversava il fiume e arrivavamo così da due parti diverse, perché a Coazze c’erano i tedeschi che andavano su da Giaveno. Una volta  è andata al mio posto una ragazza che abitava in una frazione tra Giaveno e Coazze e quando ha attraversato il fiume i tedeschi l’ hanno vista e le hanno sparato. Il parroco si chiamava don Mattone e come mio cugino era ricercato dai tedeschi; allora mio cugino è venuto a vivere con noi e don Mattone è stato accolto da Cele De Matteis nella sua villa.

Questa figlia di De Matteis poi si è fidanzata con il comandante  Falzone e finita la guerra si sono sposati nella chiesetta di Forno ed è stato don Mattone a celebrare le nozze.

Cele era proprio fatta a modo suo. La sera ero andata da lei; si stava stirando un abito a quadretti bianchi e nero e mi ha detto che la mattina dopo si sarebbe sposata. Mi ha chiesto di farle da testimone, ma non avendo io diciotto anni ha chiamato Ada Ferrero. Pensavo mi avesse raccontato una balla e invece era vero. Alla sera tardi ha telefonato ai suoi genitori che vivevano a Torino per dare loro la notizia. I suoi genitori, quando hanno capito che si sarebbe veramente sposata, sono venuti ma la cerimonia era già quasi finita. L’ ho rivista la sera davanti alla latteria in Via Fratelli Piol; stavo mangiando un gelato e lei che era in macchina si è fermata e mi ha confermato che la mattina si era sposata e che con i suoi genitori e don Mattone era andata a pranzo ad Avigliana.

 

·         Che anno era?

Sarà stato il ’50.

 

·         Per il lavoro particolare che faceva ricorda qualche bombardamento…

Sì! Ne abbiamo avuti due e ci sono stati dei morti. Un bombardamento è avvenuto in Via Roma. Lì c’era il tabarin della signora (omissis). Vi si radunavano gli ufficiali, perché a Rivoli con il Castello di ufficiali ce ne sono stati sempre molti. Veniva anche il Principe che poi è diventato Re, e anche molti signori di Rivoli.

C’era un giardino tutto illuminato con lumicini cinesi, e dalla statale si vedeva questo posto elegante dove ballavano, andavano con gli abiti lunghi e alle volte davano qualche serata, come chiamarla, di beneficenza. Quella sera c’era un tenente di Ala di Trento che partiva per il fronte russo e aveva avuto il permesso di fare andare lì gratis tutti gli amici che aveva conosciuto a Rivoli e aveva invitato anche mio papà. Il bombardamento è venuto presto, non erano neanche le dieci, e là le feste cominciavano sempre tardi.

Infatti papà era ancora a casa e sentendo le sirene non ha voluto lasciarci sole. In seguito al bombardamento ha preso fuoco la segheria di Gherzi e le fiamme, con tutta la legna che c’era, sono diventate una cosa spaventosa e hanno illuminato il Castello.

Allora gli aerei vedendo un castello e non sapendo che cosa fosse lo hanno bombardato. In linea diretta, dall’altra parte, rimaneva il cabaret. Come rifugio avevano costruito sotto la montagna una galleria e scappavano di lì.

Quando suonava l’allarme il dottor Rossano ci faceva andare nei prati vicini alla sua cascina, che era fuori Rivoli, sulla strada per Villarbasse, e stavamo lì finché finiva il bombardamento.

La bomba probabilmente ha smosso la terra che è caduta sopra quelli che scappavano dal tabarin e nello spavento generale, al buio, è morto il tenente che doveva partire l’indomani per la Russia.

Gli altri bombardamenti sono stati alla stazione.

Il palazzo all’angolo con la piazza, dove ci sono i portici, è stato centrato in pieno. Erano tutti scesi in cantina, però un lato del palazzo è crollato.  Tanti li abbiamo salvati, papà era andato giù ed io sono andata con lui e abbiamo passato la notte lì. Erano rimasti sotto le macerie la signora Mens e i suoi tre bambini. Non riuscivamo in nessun modo ad estrarli dalle macerie, gli uomini con le pale cercavano di tirare su il trave. La madre urlava di salvare i figli e anche i bambini urlavano. Sono morti tutti e quattro, non siamo riusciti a salvarli. È stato il parroco a dare la notizia al marito quando è arrivato dalla Philips dopo il turno di notte,

C’è stato anche un ferito, che si è salvato entrando in un cumulo di terra che era stato fatto nelle piazza dove c’è il monumento ai caduti.

Si può dire che Gherzi ha perso l’intera segheria. Il papà era andato a salvare i cani che teneva legati alla catena, ma non è riuscito ad avvicinarsi e li ha visti bruciare vivi.

Rivoli ha avuto anche questi morti.

Invece è andata bene la sera in cui se ne sono andati i tedeschi, dopo aver minato il Castello per farlo saltare. 

Mio papà mi ha mandato ad avvisare le suore (io allora frequentavo l’istituto “Salotto e Fiorito”) perché doveva andare con gli altri a vedere cosa poteva fare per fermare un gruppo di pazzi che volevano attaccare la colonna tedesca.

Allora le suore accoglievano nell’istituto le bambine orfane e le figlie di ragazze madri. C’era anche la signora Donat Cattin con la sorella; la loro madre era vedova di guerra e non potendo allevare le figlie le aveva messe in collegio.   

Così le suore hanno portato le bambine nel sottopassaggio che andava dall’altra parte della villa; qualcosa è bruciato ma non ci sono stati gravi danni.

 

·         Ricorda quando andarono via i tedeschi?

Al momento di andarsene i tedeschi hanno portato via tutto quello che c’era al Castello, non hanno lasciato nessun arredo o quadro.

I primi meridionali arrivati a Rivoli sono stati accolti al Castello.

Arrivavano con tre o quattro figli, dividevano i corridoi con dei cartoni in modo da costruirsi delle camere. Noi abbiamo dato tutto quel che si poteva, materassi, abiti, scarpe.

 

·         Subito dopo la guerra?

Subito dopo la guerra.

In seguito alcune famiglie sono state mandate nelle “case Fanfani” di Borgo Nuovo.

In quel periodo andavano anche le suore infermiere a fare le punture, ad aiutare. Non davamo soldi ma buoni per il latte, la pasta, il riso, la legna e i vestiti. Fortunatamente la signora Filippi, che aveva una fabbrica di sapone, ci dava molto, altrimenti noi avremmo potuto far ben poco. 

 

·         Ma da dove arrivavano e chi erano?

Arrivavano dal sud Italia.

 

·         Subito dopo la guerra?

Io conosco ancora alcune famiglie. Una signora che aveva sette o nove figli è andata a fare le pulizie in Comune e adesso sta abbastanza bene, si chiama (omissis); uno dei figli poi è riuscito ad impiegarsi in Comune. Ma per alcuni è stato molto difficile. Ad esempio a quella (omissis) che era vedova e  aveva tanti figli e anche la suocera abbiamo dato una casa in via…, una traversa della via principale. L’ultimo bambino era proprio piccolo e la signora Boito, che era farmacista e che lavorava con noi ha dovuto insegnare a dare il biberon. Quando lei arrivava doveva andare a cercare il bambino in mezzo agli zoccoli, alle scarpe. Delle volte io andavo a mezzogiorno a portare della minestra e la nonna, quando avevano mangiato, diceva ai nipoti di lavare i piatti e i bambini li leccavano e poi li appendevano. Cose da non credere!

A Natale, Santo Stefano, Pasqua e il lunedì di Pasqua li facevamo venire all’Istituto al mattino perché assistessero alla messa e poi davamo loro abiti e scarpe. Avevamo una famiglia che aveva otto figli e al mattino il primo che si alzava metteva le scarpe, di qualsiasi misura fossero. Dormivano nei cassetti del comò e la mattina infilavano le scarpe che trovavano, corte o lunghe che fossero.

Il parroco aveva ospitato gratis in una casa che lui aveva alcune vecchiette rimaste sole e che non avevano la pensione.

Ho imparato cosa fossero le pulci perché me le sono portate a casa, e sentivo mia madre che tutte le volte mi diceva: “ Prima di entrare vai là e spogliati che metto tutto a bollire”. Mi sono presa anche le cimici da una vecchietta.

Il dottor Rossano veniva a curare queste vecchiette, anche se non era un medico della mutua, e lasciava la ricetta con 500 lire. Andava anche dalle suore di clausura e quando doveva togliere loro un dente faceva bere loro del caffè per il cuore, perché non poteva fare l’anestesia.

 

·         E suo padre ha avuto dei riconoscimenti per quello che ha fatto ?

Mio papà no, non li abbiamo neanche mai richiesti e comunque lui non ne avrebbe mai voluti. Questo è mio papà, un po’ prima di morire, aveva 70 anni (indica una fotografia). L’unica cosa che ha avuto per cinque anni di seguito è stato l’infarto e il cuore poi ha ceduto. L’ultima volta che è stato ricoverato in ospedale mi ha detto: “Sai Lucia, sono un po’ stufo di guardare quei tetti” ed io ho detto: “Hai ragione papà, vedrai che verrai a casa anche questa volta”. Di fatti è  tornato a casa e mi ha detto: “Lucia, avrei potuto lasciarvi ricchi, perché se avessi chiesto una minima cifra a quei genitori per i quali rischiavo la vita, non pensi che me l’avrebbero data?”

E quando ho chiesto a mio padre se lui sarebbe stato capace di fare una cosa simile mi ha risposto: “No! Non vi lascio ricchi, ma vi lascio un nome che non vi vergognerete mai di portare”.

L’avevano chiamato quando erano scappati dalle casermette lasciandole piene di scatolame; molti sono andati e si sono arricchiti. Ma mio padre ha detto: “Io avevo un ideale. Se questo ideale è venire a rubare, allora siamo come gli altri, non c’è nessuna differenza. Io non mi muovo e neanche i miei figli andranno a toccare qualche cosa”.

Neanche mio fratello si è mai sognato di fare una cosa simile. Ha rischiato  la vita per la sua testa ma gli è andata bene, lui si è salvato ma un suo compagno è stato ucciso.

Frequentava l’ultimo anno di perito elettronico all’Avogadro a Torino, ed  era più giovane dei suoi compagni; non aveva potuto dare l’esame di terza media perché ammalato e si era allora preparato per dare l’esame per essere ammesso alla prima superiore.

Aveva due compagni di Rivoli, uno dei quali era De Matteis, e cinque compagni di Grugliasco.

I cinque compagni di Grugliasco li ha persi tutti prima di finire nella ritirata dei tedeschi, quando hanno cercato di opporsi e sono stati uccisi.

Alla fine delle lezioni tornavano a casa insieme e se non c’era il trenino venivano fino a Rivoli a piedi.

Era la fine dell’anno scolastico e dovevano tornare a casa. Hanno deciso di fare un giro per Torino e hanno incontrato un funerale fascista, dove c’era un sacerdote, realmente fascista, che si chiamava De Amicis. Il sacerdote ha imposto loro di fare il saluto fascista ma si sono rifiutati; allora il prete ha ordinato di sparare e combinazione hanno colpito il ragazzo che era a fianco di mio fratello e lo hanno ucciso. Allora gli altri sono scappati perché non potevano fare altro. Quando mio fratello è arrivato a casa era in uno stato… e quando è riuscito a raccontarci quanto era successo siamo rimasti di stucco.

Il giorno seguente quei fascisti sono andati a scuola e  hanno ordinato agli insegnanti di non lasciar andare al funerale del ragazzo gli allievi delle classi quinte. I professori hanno rispettato l’ordine, non potevano fare altro, e hanno anche chiuso le classi. Loro si sono calati dalle finestre per andare al funerale, ma i fascisti li tenevano d’occhio e li hanno  portati via tutti.

Per otto giorni non abbiamo saputo niente. Fortunatamente tra di loro c’era il figlio di De Matteis, il quale ha minacciato di licenziare il suo direttore tedesco se non gli avesse trovato il figlio. Allora lui si è dato da fare e ci ha poi detto che li avevano portati a Porta Nuova. Pensavamo che li avrebbero caricati sul primo treno ma poi sono tornati a casa. Non so che fine abbia  fatto quel sacerdote. Ho saputo dopo tanti anni che quelli di Rivoli che avevano denunciato mio papà erano stati uccisi a Roma.

 

·         E’ stata una vendetta?

Proprio una vendetta.  Non sappiamo chi l’ ha fatto. Io non approvo una cosa così, perché allora diventiamo uguali.

 

·         Certo. Ci sono stati tanti regolamenti di conti?

Qui a Rivoli non ci sono stati molti regolamenti di conti da parte dei nostri.  Al cimitero sono stati ritrovati i corpi di sedici persone, un tenente e altri civili, tutti uomini. Erano stati sotterrati in quattro fosse, quattro salme una sull’altra. Non sappiamo chi sia stato e quando sia successo.